venerdì 25 settembre 2009

L'eredità della Priora, il romanzo di Carlo Alianello su una donna 'Gattopardo' di Fabio Imparato

La gloriosa storia dell’Unità d’Italia. La spedizione dei mille e la conquista del Sud che, felice, si unisce ai Piemontesi.
Vittorio Emanuele. Garibaldi. Cavour. Crocco. Crocco? no! Crocco non c’è nei manuali di Storia. Lui non c’è scritto nella Storia.
Ma una storia scritta da chi? Dai vincitori.
La voglia di saperne di più, l’ostinatezza nel credere che i fatti non siano proprio completamente esatti, spinge i più curiosi alla ricerca di una verità più ‘totale’. Entra in gioco così la ‘controstoria’, per svolgere un compito forse importante per la soluzione a questi dubbi, fornendo un ulteriore punto di vista, per comprendere meglio la società risorgimentale.
Carlo Alianello, con il suo romanzo ‘L’eredità della Priora’, riesce a far luce sulla società meridionale nel momento del trapasso dal Regno borbonico all’unità d’Italia. Questo romanzo insegna come, in alcuni casi, la storia raccontata nei libri di testo possa essere non corretta o per lo meno politicizzata da stratificazioni di varia retorica. Quella che per i Piemontesi è stata una missione liberatrice nei confronti del Sud non era un ideale comune a tutta la popolazione. I Piemontesi usavano in maniera forte la parola liberazione, per sopraffare quella di una buona parte di popolo che accusava gli invasori di speculazione. Quella del Meridione fu, invece, secondo Carlo Alianello, una conquista piemontese in cui lo Stato sabaudo usò i territori invasi più o meno come avevano fatto i vecchi Viceré spagnoli, sfruttando il territorio conquistato fino all’osso e lasciando gli abitanti nei loro problemi atavici, semmai aggravati.
Carlo Alianello (1901-1981), un autore quasi sconosciuto al grande pubblico che cerca di far aprire bene gli occhi sulla questione, viene incontro a questi dubbi. Alianello ha dedicato molta attenzione alle problematiche del sud Italia, pubblicando vari romanzi come ‘L’eredità della priora’ nel 1963 ed il saggio ‘La conquista del Sud’. Trovare uno dei libri pubblicati a Potenza in quegli anni risulterebbe un’impresa da fenomeno e, quindi, nel 1999, la casa Edizioni Osanna Venosa ha deciso di fare una ristampa più diffusa.
Il periodo raccontato è quello tra il 1861 ed il 1866, quando il Sud era già parte del Regno d’Italia.
La storia intorno alla quale si avviluppa l’intreccio è quella di Gerardo Satriano, un ex ufficiale dell’esercito borbonico, diventato ‘disoccupato’, dopo la caduta di Gaeta e la sconfitta del Regno delle due Sicilie ad opera di Garibaldi e del generale piemontese Cialdini. Senza lavoro e senza soldi, come la maggior parte dei soldati borbonici, Gerardo incontrò un giorno per strada un suo vecchio amico, Max Schaub che gli offrì un modo di guadagnare, cospirando contro il nuovo Stato. Gerardo, disperato ed ancora di sentimenti borbonici, decise di schierarsi con i ‘Briganti’. Nel frattempo il barone Andrea Guarna giunse a Melfi, anch’egli ex ufficiale borbonico, ma, diversamente da Gerardo, ancora con qualche proprietà e con qualche soldo in tasca, con lo scopo di far visita a sua zia: la madre priora di un Carmelo, al secolo la duchessa Maria Carolina Guarna. Il giovane barone Guarna cercava protezione dalla zia che, appena lo vide, trovò quella visita molto interessante. Con la creazione del nuovo Regno d’Italia furono abolite tutte le proprietà ecclesiastiche e, quindi, anche quelle del convento delle suore di clausura, dove era priora Maria Carolina. Interessante il brano in cui i funzionari piemontesi ed i militari volevano espropriare il convento della priora che, da ‘gattoparda’ quale appare fin dalle prime pagine del romanzo, non si arrese così facilmente e fece faticare non poco gli ufficiali.
Se i Piemontesi volevano applicare la loro legge, facendo passare tutto inosservato, le monache preferirono uscire dal loro mondo secondo la regola del Carmelo e ciò attirò l’attenzione del popolo attonito.

C’erano guardie e carabinieri attorno al pozzo e, in fon­do a un vialetto, quattro o cinque soldati piemontesi, una mezza squadra con un caporale. Stavano sul riposo appoggiati ai fucili nei loro cappottoni turchini che gli arrivavano fino ai piedi. Guardavano tutti avanti a loro, soldati e gendarmi, verso un portale di pietra antica che era l'ingresso solenne della chiesa e del convento, giacché un convento carmelitano non ha mai la sua facciata sulla strada, al mondo, ma sul chiostro che è come il suo cuore. Lì stavano due monache col velo nero sugli occhi e sulla bocca e il corpo avvolto dalla cappa corale candida e lunga.
I soldati, quando stanno in riga, stupidi o furbi, sono tutti a un modo e paiono fratelli; sul riposo in genere si ripi­gliano le loro facce e le mettono in mostra. Questi però s'e­rano fissati tutti nella stessa espressione: un risolino d'at tesa, una curiosità ingorda che impregnava perfino i mustacchi dei carabinieri e le barbe o le basette di tre uomini, tre bor­ghesi in giamberga e mezza tuba, che slavano ritti ai piedi della breve scalinata, un palmo più giù delle monache. Ci sarebbe stato da ridere; già ognuno si figurava gli strilli, i lamenti, le sonane per aria e le teste rapate delle monache. Non le avrebbero toccale, no; ma insomma a lutti gli sa­liva come un rigurgito di virilità al pensiero di quelle sposi­ne di Gesù, atterrile e tremanti, a domandare mercé.
Una pantomima pareva dove nessuno parla. Qualcuno però strusciava e batteva i piedi in terra per il gran freddo.
Parlò per prima una suora. "Cosa volete?" chiese la Priora.
Stava eretta, anzi si tirò tutta su, come se non fosse più vecchia, lei che stava così curva al tavolino o in preghiera.
"Siamo venuti," disse uno degli uomini, senza neppure accennare a portar la mano alla mezza tuba che teneva calca­ta in capo, "per la presa di possesso da parte del Demanio, per la requisizione, insomma."
"E voi chi siete?"
Nella fredda mattina, la voce della Madre Priora suona­va acuta, ma chiara. C'era un po' di sole e una lista netta ne cadeva sul pozzo e sopra due alberelli che lo sormonta­vano, dai tronchi snelli, anzi gracili, ma altissimi, che gli avreb­bero dato ombra con la primavera. La mattina però era pre­gna di neve caduta e da cadere, e i fusti coi loro rami erano neri e precisi sicché spiccavano nitidi contrastando a grado a grado, per chi li guardasse di sotto in su, dapprima con la bianca pietra del pozzo, poi col rossiccio della costruzione e infine col cielo tenero, d'un azzurro pallidissimo, come i pe­tali di certe viole, senza colore quasi, che appunto sotto la neve nascono.
"Questi," disse l'uomo grosso che aveva parlato anche per gli altri e aveva attorno al capo una coroncina di riccioli goffi e unti che gli scappavano fuori dalla tuba, "è il regio notaio Grasselli che rappresenta il Fisco, l'altro è il signor Nicola Caputo, segretario di questo municipio..."
"Il signore," interruppe don Nicola, grande e pingue an­che lui, ma una grassezza flaccida, di corto respiro, ficcata a forza dentro un abituccio nero, troppo stretto per tanta mole, "è l'avvocato don Firmino Rua, delegato di pubblica sicurezza di Sua Maestà," e s'arrotondò la bocca, come aveva fatto fino a poco tempo prima quando diceva Sua Maestà Borbonica, "il Re di Sardegna." Il delegato lo guardò di traverso con un grugnito: "D'I­talia, d'Italia, non confondiamo." L'altro fece un risolino me-lanconico e ammiccò.
Ma la Madre Priora non li udiva. Capi che dicevano i loro nomi presentandosi; ma che le importava di quei nomi e di quei titoli? Già, ogni qualvolta un pensiero aspro, un'emozio­ne da contenere o da celare, un'ira fiera da contrastare con maggior fierezza la prendevano, la sua sordità cresceva. Sen­tiva un rombo indistinto nelle povere orecchie, come impeto di sangue che le toglieva ogni altro suono, ogni voce di fuori.
Sola con la sua pena, dentro il rimpianto delle cose passate, vissute silenziosamente per tanti anni, quanti? quaranta? cin­quanta? E le miti gioie e le preghiere lunghe e i crucci rassegnati... Tutta la sua vita lì, dentro il convento, giovi­netta, donna e donna vecchia... novizia, professa, zelatrice, cla­varia e poi... Madre Priora adesso. Sì. E come dice il Capi­tolo degli uffici minori? "La tabella dei servizi umili comin­ci con la Madre Priora, affinchè sia in tutto di buon esempio." E ora è lì nel basso ufficio di serva sorda e inutile che la gente rimbrotta... Affinchè sia di buon esempio.
Questi uomini grossolani hanno violato la clausura, hanno offeso lo Sposo Gesù e parlano. Dunque sia ringraziato Iddio che le concede di non sentirne le voci, ora che Dio le sta sopra. Giacché è arrivato per lei il momento che ogni cristiano può e deve aspettare dal punto del suo battesimo, la persecuzione profetizzata ad ognuno, dove ci è dato di confessare Gesù innanzi agli uomini perché l'Agnello non ci rinneghi davanti al Padre.
"E cosa volete nella casa di Dio?" chiese la Priora.
"In nome della Legge!" disse il delegato.
La Madre questa frase l'intese e sorrise sdegnosa dietro il velo. La Legge! C'è una legge degli uomini che possa scan­cellare quella di Dio? Le creature che ne fanno testimonian­za, sì, quelle possono essere scancellate e... che cosa, poi? La parte imperfetta che non vale nulla... "Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima..." però, che sciocca! nessuno vuole uccidere lei, finire quel suo povero corpo arido e stanco. Solo intendono cacciarla dalla cuccia, staccarla come un lumacone dal suo guscio. Suo? E ci può essere qualcosa di mio, di proprio, per una suora? Certo che no. E vedi chiaro, monaca pazza, che è la mano del Signore che ti scalza, che ti strappa, non gli uomini, i piemontesi, da quella nicchia tranquilla a cui tu, con grave imperfezione, avevi posto un affetto terreno. Perché Dio è giusto: sia be­nedetto!
Ora la Madre Lettora, quella suora che le stava al fian­co ed è la depositarla e la espositrice della Regola, parlava fitto con il delegato; ma questo non interessava la Madre.
Il delegato aveva fatto appunto la voce morbida e gene­rosa di chi acquieta, lusinga e dona: "Ora," stava dicendo, "passeremo a distribuire i libretti di pensione che danno di­ritto a riscuotere otto grani giornalieri. Il Regio notaio Gras­selli consegnerà il suo a ciascuna delle suore, dopo averne de­bitamente constatata l'identità..."
"Madre Lettora," l'interruppe la Priora, "mi dimenticavo, Dio mi perdoni! Faccia suonar le campane! Stupida che sono! Posso averlo dimenticato senza peccare? Faccia suonare a Gloria!"
"Nossignora," disse brusco il delegato. "Qua le campane non si suonano. Non servono al governo."
Invece in quella dal campanile giunse un tocco, poi un altro e tutti guardarono col naso in su. Le campane suonava­no, ma non a gloria. Un battere cupo, un rintronar vibra­to, tocchi brevi e frenetici come un singhiozzo e un allar­me; suonavano a stormo.
"Brigadiere!" urlò il delegato. "Corra al campanile e mi fermi quegli accidenti! Arresti chiunque trova! Qui mi chia­mano all'arme tutti i contadini dei dintorni!"
Il brigadiere si precipitò dentro la chiesa con due militi alle calcagna e un gran risuonare di sciabole e di speroni.
Intanto le campane seguitavano a suonare. Don, don, len­to lento, e poi una scarica di rintocchi vibrati, scattanti che morirono d'un colpo con un fremito lungo, staccato. E di nuovo suonarono dolenti e lugubri, a morto.
"Per Dio!" gridò il delegato. "Che mi sta facendo quel... che fa il brigadiere? Non è capace di...?"
Era fuor di sé, perché aveva paura che arrivassero a frotte i cafoni e i soldati erano pochi. Fece un cenno al caporale.
Questi si tirò su, si volse alla sua esigua schiera e strillò: "Attenti! Baionetta in canna!" E poi ancora: "Riposo!"
Le suore cominciarono ad uscire. Vennero prima le madri vocali, due per due, col velo nero e la cappa bianca, ed erano otto, poi le novizie col velo bianco, ed erano sei, e infine le converse col velo nero, ma senza cappa, e furono in tutto ventuno. Si misero in fila a semicerchio dietro la vecchia Madre e parevano fantasmi tanto erano leggere sulle suole di feltro, anche le vecchie, e il velo che copriva ogni viso non lasciava indovinare fattezze o colorito sotto la trama fitta.
"Per Dio!" disse l'avvocato del Fisco, "Quel velo! Come fac­cio a riconoscerle così ? "
"E quando mai l'ha conosciute?" chiese sdegnosa la Lettora.
L'altro alzava le spalle brontolando, ma subito riacquistò la sua burbanza: "Ci son tutte, le monache? Le conti lei."
La Lettora già si voltava a farsi certa che non mancasse nessuna del piccolo gregge, ma era sicura di no, quando da una porticina laterale uscì di corsa, trafelata e ansante, una suorina. Raggiunse la Madre Priora e le s'inginocchiò davanti: "Benedicite." Ma subito cominciò a tossire; una tosse violen­ta, quasi uno spasmo, e così restava, ginocchioni e piegata in due. La Madre Priora si chinò e l'aiutava a trarsi su: "Che c'è, figliola ? "
Lei ansava ancora un poco e scostò un istante il velo dal viso per respirare meglio, forse. Era bellina, tutta rosea per la corsa e la tosse, e giovanissima: "Le campane..." bi­sbigliò.
La Madre Priora non la senti, ma intese: "Zitta! Zitta!" disse e l'attirò a sé. Per un istante la suora giovane riposò il suo capo sulla spalla ossuta della suora vecchia: "E come hai fatto?"
"Oh! Le corde passano dietro la statua di Sant'Anna, sulla loggia... Basta tendere il braccio..."
"Va' al tuo posto, figliola," disse la Priora e la suora andò a mettersi in fila tra le novizie.
Alla Priora brillarono gli occhi, ma era soltanto un ralle­grarsi della fedeltà delle sue figlie, fino all'ultimo, una luce di tenerezza per quella giovinezza, tanto vispa, tanto santa e tanto malata, piuttosto che la soddisfazione d'una piccola vit­toria sulla legge degli uomini. Il delegato invece, che la stava osservando, l'intese per un brillio di trionfo. Non aveva sen­tito nulla giacché le parole che quelle due s'erano scambia­te erano state solo bisbigli e sussurri, e poche; ma capì tutto.
Maledette monache! L'hanno giocato. "Questa bassa Italia!" brontolò e scrollò il capo scandalizzato.
"Dunque," disse con voce alterata l'avvocato del Fisco. "Madre Priora, abbia la compiacenza d'invitare le sue monache a togliere quei veli... o vogliamo usare la forza?"
"È la Regola," disse la Lettora, "e noi dobbiamo osser­varla. Nel Decreto Luogotenenziale del 18 marzo ultimo scorso, si parla d'incameramento di beni e di soppressione dei conventi, non di Regole o di voti da mutarsi o da sopprimersi. Quello che voi minacciate è illegale. Qualcuna di noi vi in­tenterà causa, signor avvocato, per abuso di potere e come cattivo servitore dello Stato."
"Ma, ma ma... come posso fare io a riconoscervi?" L'av­vocato si aggiustò gli occhiali sul naso febbrilmente. Era fran­camente seccato di questa faccenda che gli era parsa dappri­ma una cosa tutta da ridere e invece si stava tramutando in un lugubre cerimoniale.
"Ve le indicherò io una per una," disse la Madre. "Io le conosco, voi no."
"Bene, bene..." intervenne il segretario comunale, accorren­do in aiuto del collega. "Permettete, avvocato. Lasciate fa­re a me."
Uscivano intanto dalla chiesa il brigadiere dei carabinieri coi suoi due uomini. II graduato si piantò sulla soglia, lungo, sbigottito, e allargò le braccia.
"Mi rallegro!" lo investì il delegato.
"L'è il demonio," si scusò l'uomo, "o son miracoli..." e guardò in aria... "Nel campanile non c'era nessuno e le cam­pane suonavano da sé..."
"Balossade!" scattò il delegato. "Stupidaggini! Chiel a l'à nen tute le grumele a post! E la smetta di fare la panto­mima!" Voltò le spalle e tornò a guardare quello che face­vano l'avvocato e il segretario. Questi aveva aperto una cartel­la e ne aveva tratto fuori un fascio di libretti. Cominciava la chiama naturalmente dalla Priora. Si schiarì la voce, tossì: "Maria Guarna!" chiamò a voce alta, benché quella gli stes­se quasi al fianco.
"No," disse la Madre.
" Come no ? " e il segretario la guardava sbalordito.
"Giacché sono costretta a rientrare nel secolo," disse la Priora, "esigo entrarci come si deve. Col mio nome com'è e i miei titoli."
"Come? Come?" protestò l'avvocato. La Priora l'ignorò.
Scostò il velo dal viso rugoso con una dignità piena di sprezzo verso quegli uomini piccoli, plebei, che intendevano sopraffarla: "Dite: Donna Maria Carolina dei duchi Guarna, marchesa di Fromboleto, contessa di Vardona, di Xantilo e d'Alagros."
"Ah!" rise il delegato. "Questi napoletani portano tanti ti­toli quante cimici hanno nel letto! Tutti principi, duchi, marchesi ! "
La Madre rise anche lei, poco più d'un sorriso, ma il di­sdegno era tanto: "Ricordatevi," disse, "che quando Guarna era Guarna, i vostri Savoia servivano il duca di Borgogna... Come uomini d'arme, mercenari... o che?"
Ma subito lasciò cadere il velo e parve vacillare. Si portò le mani al viso: "No! No!" gemette. "Solo suor Agnese di Gesù, cattiva cristiana! Che Dio mi perdoni!"
Il segretario non sapeva che dire e ritirò il capo tra le spalle.
"Via! Via!" fece l'avvocato del Fisco scandolezzato.
In quel mentre si fece un po' di tumulto da quella par­te del chiostro dove s'usciva nella portineria. Guardie e cara­binieri pareva che cercassero di mandare indietro qualcuno che protestava gesticolando e alzando la voce.
"Sono due preti," disse il delegato. "I soliti rompiscatole."
"E faccia entrare anche loro," sospirò l'avvocato. "Tutti!" e urlava. "Tutti! Tutti! Perché oggi la rappresentazione è gra­tuita... per Dio!" L'altro ghignò: "Tutto gratis..." Ma l'avvocato gli aveva piantato gli occhi in faccia: "Vede? Già arrivano i corvacci... e tra poco sarà qui la canaglia. Sbrighiamoci."
Entrò nel chiostro monsignor Vincenzo Stella, quello a cui la Priora aveva raccomandato Andrea, un uomo pingue e pe­sante che pareva vecchio e bolso, per il respiro breve, affannoso e la faccia larga e un po' enfiata, ma ancora rosea e liscia. Era ammalato di cuore e si portava appresso il suo malanno sulle gambe gonfie e fiacche, sudando spesso e fer­mandosi ogni tanto per frenare l'impeto dell'asina. In gene­re usciva poco di casa e solo per fare quattro passi pian piano, e grande doveva essere la passione che l'aveva trascinato fin là al convento in fondo alla valle, benché ci fosse venuto in carrozza. Portava ancora, unico o quasi dei preti di Potenza, il tricorno peloso in testa e la lunga veste talare; gli altri inalberavano sul capo il cilindro e vestivano l'abito corto a due code, come una funerea sciammerica, tutta nera, anche sul petto.
Dietro gli veniva il cappellano delle monache, un ometto di mezza età che per l'occasione aveva inalberato il cilindro, giacché terminandogli quel giorno l'impiego al convento, e con esso l'obbligo di non scandalizzare la Priora, tornava, felice no, per via del mensile sfumato, ma fiducioso nell'avvenire, ai prischi amori di libertà.
Vennero avanti, addolorato il primo, cordiale il secondo, e salutarono le autorità con un cenno del capo e una calata di cilindro.
"Sono venuti," chiese ironico l'avvocato del Fisco, "a osser­vare se tutto procede in regola?"
"Siamo venuti," disse il canonico, "a portar via degnamente Nostro Signore nelle specie del S,S. Sacramento e ad evitare che sia fatto segno ad oltraggi o a profanazioni..."
"Che vi credete, don Vicié?" chiese il segretario, voltan­dosi di scatto e allargando due braccia supplichevoli. "Anch'io sono un buon cristiano!"
"Eh! Eh!" fece il prete.
"E allora," insisteva il notaio del Fisco, "questi libretti... che ne facciamo?"
"Ci cacciate?"
"Non è questa la parola!"
"Madre," annunzio il canonico, "fuori ci sono le carrozze per tutte voi."
"Ma i libretti!" insisteva l'avvocato.
La Madre lo guardò; ormai s'era alzato il velo sul viso e rimaneva a faccia aperta: "Non li vogliamo," disse. "Per­ché, se accettassimo, noi che viviamo dì carità, la carità degli scomunicati, riconosceremmo come giusto e legale questo la­trocinio... Compiici saremmo."
"Misuri le parole, Madre!" urlò l'avvocato, "o io..."
Ma i suoi occhi incontrarono a quel punto gli occhi della Madre; erano occhi di chi sa farsi obbedire, sempre, perché è nato a quel fine, di comandare. E l'avvocato abbassò il capo arrossendo. Due mesi più tardi avrebbe fatto arrestare senz'al-tro Priora e suore, ma in quei giorni ancora vigeva l'ordine di far le cose senza rumore e con pulizia; sicché gli toccò sop­portare masticando amaro.
"Io," disse ancora la Madre, "non vieto a nessuna suora di accettare, se vuole. Se la vedrà con Dio e la sua coscienza. Chi abbisogna di quel libretto, lo chieda."
Nessuna suora però si mosse, nessuna mano si tese fuori della cappa o del velo, nessuna voce si levò.
"Il Santissimo," disse la Priora.
"Come? Come?" intervenne il delegato. "Qui non abbia­mo tempo da perdere, ci penseranno i preti..." s'accostò al­l'avvocato e gli sussurrò all'orecchio: "Fuori di qui si sta am­massando una calca di malintenzionati... Vediamo di non per­dere tempo."
"Bisogna fare il verbale," disse l'avvocato.
"Lo faremo in ufficio," e alzò la voce. "Su, su, presto, presto. Avete sentito il canonico? Le carrozze sono pronte."
"Non usciremo di qui senza il Santissimo," disse la Ma­dre e chinò il capo per riverenza e perché ognuno vedesse che la sua decisione era irrevocabile. Poi incurante dei brontolii e proteste, fece cenno alle sue figliole e il drappello delle suore, due per due, s'avviò verso la chiesa. Curva, ma pur solenne, la Priora prese il suo posto nella fila, l'ultimo.
Gesù Santissimo nel Sacramento le avrebbe aiutate. Bi­sogna essere forti, forti come non mai. Cosa borbottavano quegli uomini dietro di lei? Grazia grande non sentire... quel­le parole o sciocche o infami o indifferenti non hanno peso giacché lei non le sente e non c'è chi possa costringerla ad intenderle.
Ora il cappellano s'è levata la tuba e s'è infilata la cotta sopra il cappotto, perché i! freddo è grande, e mette la stola. Il segretario intanto riponeva lento lento i suoi libretti nella borsa; pareva avvilito, ma quando il notaio e l'avvocato gli voltarono le spalle, ne approfittò per darsi una calorosa fregatina di mani, di cauta soddisfazione.
Adiutorum nostrum in nomine Domini..." cantò alto il canonico ed entrò in chiesa, facendo ben ampio, ben solenne, il segno della croce.
"Qui fecit coelum et terrami" cantò il coro delle suore appresso monsignore.
"Ma come? Ma come?" urlò il delegato. Però quelle erano già dentro e la Priora intonava con la sua voce fina, un po' tremula, il Salmo "Ad Te levavi oculos meos qui habitas in coelis..."
Le cantore subito ripresero il versetto con voci argentine: "Ecce, sicut oculi servorum in manibus dominorum suorum..."
E il coro balzò altissimo, come una sola voce ferma, an­gelica. Anche i soldati sparsi per il chiostro s'irrigidirono ap­poggiati ai loro fucili inutili e si chiesero la prima volta cosa ci stessero a fare là dentro, loro, e se la cosa era buona. Qualcuno arrossì.
La chiesa era deserta; il cappellano salì all'altare e aiutò monsignore a rivestire il piviale; la suora organista sedè al suo posto, toccò i tasti, provò i cordoni dei maritici, tirò a sé e regolò i registri, mentre la sacrestana accendeva i ceri.
Allora il canonico scese dall'altare col Santissimo e il cap­pellano reggeva l'ombrello, e la piccola processione si compose girando attorno ai banchi vuoti. "Pange lingua gloriosi..." Le note dell'organo salivano in alto con un glorioso crescendo.
Testarde!" disse l'avvocato e si soffiò sulle dita per la gran sizza che ventava.
"Son barbarie!" incalzò il delegato. "Roba da medioevo!" "E fanno professione d'umiltà," rinforzava l'avvocato. "Bel­la umiltà! Rifiutare il sussidio del governo!"
"Ma, dica lei, non dovrebbero essere povere per voto? Dunque! Noi le aiutiamo, no? E loro strillano! Otto grani son mica tanto pochi, sa? Li prende qui un uomo che va a giornata... Un faticante come vengon chiamati... E le so dire che lavorano davvero. A l'è pousitiv. Dunque! E alle suore invece gli cadrebbero giù senza far niente... Dunque! Dicano grazie almeno! Accidenti che tramontana! Si sbrigano o no questi preti? Ha visto che occhi, la vecchia? Terribile!" e si volgeva al segretario comunale. "Non è vero?"
Don Nicola Caputo non disse né si né no; guardava at­traverso il portale la chiesa buia trascorsa qua e là dal lume tremulo e vagante delle candele.
"In supremae nocte coenae, recumbens cum fratribus..."
Le voci giungevano fuori ammorbidite e gentili. Ma altre voci altri suoni si levarono dal di fuori. Proprio allora un urlio, un vociare confuso riempì il chiostro.
"Cribbio!" disse il delegato sbiancando. "Che succede?" E corse verso l'ingresso.
"Uhm!" fece l'avvocato, "si è raccolta un po' di gente..." e chiese al segretario. "Che ne dice lei?"
"Chisti vanno truvanno guaie..." biascicò don Nicola. "Jammo malamente..." e si passò la mano sulla fronte sudata.
Ma l'avvocato faceva l'indifferente: "Questa è terra santa," ridacchiò, "chissà se poi poi farò sacrilegio a fumarmi un sigaro?" e si guardava il segretario, quasi a provocare la sua approvazione; ma la faccia di don Nicola era compunta e dubitosa.
L'avvocato aveva tirato fuori il sigaro, lo guardò, l'annusò, lo smozzicò; ma subito lo rimise in tasca al suo posto.
La Priora pregava. Signore, dammi forza, quanta ce ne vuole e più ancora ch'io non insuperbisca di soffrire con Te e divenga dura verso i persecutori... Le vene rigide, sì, le ossa dure e fragili, le giunture incordate, tutto il corpo illegnito e secco, ma la mente no, il cuore duro no, Signore...
Aveva freddo; rabbrividì e meccanicamente si voltò a dare un'occhiata alla porta della chiesa, tutta spalancata, di dove giungeva l'aria gelida che faceva tremolare le fiammelle dei ceri. Sul chiostro il ciclo pendeva più bianco e più basso; avrebbe fatta altra neve.
"Sono vecchia, Signore!" sospirò la Priora. Il sacerdote stava per dare la benedizione e già la madre sacrestana gli porgeva il velo. Dlin! Il campanello. La Priora avrebbe voluto dissolversi a quel suono, restar piegata li, immedesimata al banco, al tappeto, alla balaustra, come una cosa di Gesù, che adora e non sente... Una cosa buona che non abbia però più da muoversi, d'alzarsi, d'andare, di pensare... Ma le parve ignominia questa, e subito ne chiese perdono a Dio sull'al­tare. Dlin! Il sacerdote alzò l'ostensorio. Ora la Madre Priora pensava ai morti, anzi alle monache morte, in fila una dopo l'altra, chiamate al coro eterno, giù nella cripta sotto il pa­vimento dove lei sta inginocchiata e c'è una lastra di marmo che ogni tanto si solleva con un piccolo argano che non serve ad altro e lo tengono nel casotto dove le monache hanno cu­stodito finora le zappe, le vanghe, le carriole, tutti gli stru­menti pel giardino.
Non ce lo portava lei il suo pensiero li; anzi avrebbe vo­luto supplicare adorando col cuore il Cristo; ma l'immagina­zione tornava alle monache morte, in fila, dentro le loro cappe tarlate, e le due cavità profonde al posto degli occhi. Pensava alle Priore che l'avevano preceduta e ora l'attendevano, sfatte, perché un po' per volta tra loro si sfacesse. E lei non ci sa­rebbe stata. Eppure sapeva che tutto questo non ha impor­tanza; non conta dove il tuo mucchietto di polvere si sfaldi pian piano finché si appiattisca in terra, tutt'uno con la terra... Cos'è il tuo corpo, vecchia? brandelli di niente, mal connes­si, che non valgono niente... sino al di della resurrezione almeno. Eppure quelle morte non le vogliono uscir di mente, cosi intarmate e tristi come fiori di carta imputriditi...
Lei ne ha conosciuto almeno tre, no quattro priore con quel­la che mori un mese solo dopo l'elezione, suor Arcangela del Crocifisso, che lei era ancora novizia... le avrà parlato al più due volte o tre; ma anche lei la starà aspettando. E poi suor Immacolata di Gesù, suor Teresa delle Spine, suor Giovanna dell'Agonia, Ci rivedremo in Cielo, sorelle? Qui no; non mi aspettate. Eppure ci sarebbe mancato tanto poco tempo, Dio mio! Quei piemontesi non potevano aspettare a cacciarle di li un mese, un anno? È possibile che lei possa vivere di più?
Ma ho tanto ancora da fare, tante cose, e sono vecchia, Ge­sù! Un mese, un anno ancora per dire no alle prepotenze degli uomini... Son vecchia, pensò, eppure mi tocca rico­minciare tutto daccapo, in me e fuori. Sorelle morte, bea­te... o Dio!
La Madre Clavaria le s'inginocchiò silenziosa accanto: "È finito..." sussurrò. "Dobbiamo andare."
"Dove?" chiese la Madre e si levò dritta, atterrita la pri­ma volta, smemorata e come fuori di sé. Aveva parlato ad alta voce in chiesa e si battè il petto con gesto rapido a ripa­razione. Ora si ricordava: "Si. Bisogna andare."
Le monache già s'alzavano. Il canonico intonò .con voce forte: "Christus vincit, Christus regnat..."
"Christus, Christus imperat..." risposero le suore con voci come squilli.
Alla Madre mancava il respiro. Alzò la testa e aprì la bocca senza voce; soffocava.
Si spalancò il portone esterno, quello in fondo alla chiesa, la porta che da sul mondo, sempre chiusa fuorché nelle fe­ste solenni, e il cappellano portando la croce e il canonico l'ostensorio andarono avanti. Le madri intonarono il secondo salmo di Terza. : "Nisi quia Dominus erat in nobif, dicat nunc Israel, nisi quia Dominus erat in nobis..."
Subito nel chiostro scoppiò un clamore di voci, uno smozzicar di comandi, un correre affrettato, uno sbatacchiar di fucili e di daghe, e il delegato bestemmiava perché le mona­che gliel'avevano fatta. Lui contava di farle passare nelle car­rozze, una per una, alla chetichella, e quelle gli uscivano fuori in processione e quasi in trionfo.
Corse in chiesa strillando: madre! madre! ma davanti al­l'altare nudo si arrestò tacendo. Guardava torbido, poi s'inchi­nò avanti al tabernacolo vuoto, con un guizzo furtivo, e so­spirava: che mestiere gli facevano fare?
Lo raggiunse il notaio del Fisco: "Che gliene pare, dele­gato?"
"Di che?"
"Di questo..."
"Ehm... ehm..." e il delegato scrollò la testa. "Cribbio! Però come si fa? Bisogna pure salvare l'Italia!"
Ma le suore cantarono: "Benedictus Dominus qui non dedit nos in captionem dentibus eorum..." Benedetto il Signo­re che non ci lasciò preda ai loro denti...
Non gli restò che uscire in coda, dietro il piccolo corteo, e far segno alle carrozze di venire avanti. La folla dei con­tadini, e frammischiati c'erano anche dei galantuomini, cacciò un grande urlo.
"Evviva Santa Teresa!" gridò una voce squarciata e fonda.
Qualcuno strillò: "Viva 'o Re nuosto! Viva Francesco!"
Ma subito ogni voce si fuse in un grido solo che sormon­tò anche il canto delle suore, l'appello dei padri, il richiamo contro ogni ingiustizia e l'avvio a tutte le speranze, il grido della Santa Fede: "Viva Maria!".

Interessanti le conversazioni tra la Priora e Don Matteo Guarna, fratellastro di Maria Carolina ed accanito sostenitore dell’unità nazionale: un ‘liberale’ quindi, un uomo che aveva voluto sempre l’Unità, un esaltato. Uno che amava l’unificazione, ma che amava anche il denaro ed il potere, due elementi che non sempre si accordano con gli ideali.
Alianello descrive anche gli scontri, tra esercito e briganti, come la presa di Barile e l’attacco a Rionero da parte dell’esercito reazionario di Carmine Crocco, col sostegno del generale Borjez.

Crocco lo conosciamo, più o meno, ma Borjes no. Nomi ignoti ai più e che solo qualche specia­lista conosce, ma che a quei tempi erano sulle bocche di tanti, più forestieri però che italiani, detti con furore e disprezzo, pronunciati con rispetto e speranza. Li chiamarono briganti tutt'e due, ma in un caso sbagliarono. Al primo quel nome stava a perfezione, giacché Carmine Donatelli Crocco non era soltanto un brigante, ma il brigante perfetto, se ci può essere perfezio­ne in quel mestiere; Borjes invece, e lo sapevano tutti, era il partigiano politico, anzi il guerrillero. Il fatto è che avevano tutt'e due un bello stato di servizio sulle spalle, ognuno a suo modo, si capisce.
Carmine Donatello Crocco fu un bellissimo uomo, alto, slan­ciato, con ventre magro e torso grande, amplissime le spalle, la­dro, assassino, disertore dell'esercito borbonico, lancia spezzata dei liberali nell'insurrezione lucana, garibaldino e poi ancora di­sertore, assassino ancora, ladro sempre. Fu soprattutto il cafone armato che infuria, il motore e il banditore della rivoluzione contadina, piuttosto che della reazione borbonica. La sua è la rivolta del popolo magro, del " popele bass," contro la durezza dei piemontesi che han portato con loro le tristi novità, tasse, sequestri, sfratti e fucilazioni, ma soprattutto contro i loro al leait, i signori dove si acclama a re Francesco il di Borbont in quanto anche ut è stato Mima dei galantuomini liberai* Alleanza labile che cadrà presto, appena si sarà acquietata sgomentata la funa contadina e i briganti torneranno a fare i briganti.
Don José Borjes, catalano, unciale carlista netta guerra di successione di Spagna, diresse con fortuna varie battaglie contro i cnstmos ed ebbe buon nome di capitano. Militare di professane, sapeva ti fatto suo. Arruolato a Marsiglia dal generale borbonico Clary, nel nome della stessa fede, il Trono e t'Altare venne, attraverso la Calabria dove era sbarcato, in Bastata e qui prese il comando del piccolo esercito reazionario o se si preferisce, delle bande brigantesche. Vero è che all'inizio come confessa Crocco nelle sue memorie, di briganti di carriera per dir cosi, non ce n'erano che tre, Crocco compreso. La colonna partigiana, suddivisa in battaglioni e squadroni, coman­data da buoni unciali, la più parte spagnoli, con qualche unciale borbonico, contava i mille uomini, più tre squadroni di cavalleria e un reparto di gendarmeria.
Questa truppa marcia sin dagli ultimi d'ottobre dal Melfese a Potenza, occupando un paese dopo l'altro, ora accolta da schioppettate, ora da grida di giubilo, senza mai impegnarsi anzi senza essere mai impegnata dal piccolo esercito, che vantava però più del doppio degli effettivi dei partigiani, comanda­to dal generale della Chiesa. Un unico scontro ci fu registrato dai piemontesi, perché le zuffe furono molte, e qui s'è descritta la battaglia di Toppo Civita, all'Acimello, tra Aliano e Stigliano, dove i briganti distrassero una compagnia del 60° Fanteria, il cui capitano, Icilio Pelizza da Parma, cadeva eroica mente combattendo.
Nessuno, a quanto so, s'è mai domandato perché quella notte Potenza non fu assalita, anche se la sorpresa poteva dirsi sfumata. La truppa che la difendeva era poca e, non ostante che i piemontesi avessero messo a difesa i luoghi consueti d'accesso la città era praticamente aperta da ogni parte dagli orti e dalie vigne in pendio, attraverso le casupole dei contadini e lungo le ripidissime erte. D'altra parte, se anche qui come m tanti altri paesi della Basilicata, e furono quasi tutti, la plebe armata a modo suo fosse uscita dai tuguri per ingrossar te file dei par-tigiani prendendo la truppa alle spalle, se si fosse mescolata alla milizia soverchiandone le deboli resistenze e traendola dalla sua parte, giacché le guardie nazionali si preoccupavano di più di salvare la famìglia e la roba che dei sacri destini di questa patria nuova, se ogni vicolo avesse vomitato donne e uomini frenetici dì furore, con accette e spranghe e rossi tizzoni per assalire e mettere a fuoco le case dei signori, era dubbio che il presidio avrebbe potuto resìstere.
Ma avevano davvero i reazionari l'intenzione di conquistare il capoluogo della regione? Il Borjes nel suo diario non ne fa parola; ma il vecchio cabecilla non era uomo da tenersi addos­so documenti tanto gelosi o narrare fatti che potessero compro­mettere troppa gente e rendere cosi impossibile una ripresa della lotta in migliori condizioni, casomai avessero da cadere in mani indiscrete. Infatti in tutto ìl suo scritto che riportò per primo Marco Monnier, di nomi se ne fanno pochini, quelli dei suoi ufficiali (spagnoli), quello dei capimassa più noti, due o tre e basta lì. Dei cosiddetti manutengoli, e cioè dei simpatiz­zanti per amore o per forza dell'insurrezione borbonica, non c'è neppure un accenno.
Del giorno 16 novembre, quando assaltano Vagito, Borjes dice: "Il nemico, accortosi della nostra fermezza, ripiegò e si rinchiuse in un gran palazzo; una parte fugge per cadere nelle mani dei nostri che li massacrano. Il capitano della 1° Compa­gnia attacca il palazzo e l'incendia con della paglia e materie resinose; il nemico cominciò a saltare da un balcone; ma in questo mentre taluno, non so chi, si permette di far battere la generale; la truppa si riunisce e l'operazione rimane incom­piuta. "
Chi fece suonare la generale? Qualcuno che ne aveva evi­dentemente l'autorità e al quale non importava niente la sorte dei liberali e dei militi racchiusi nel palazzo, che era poi un convento, né intendeva sprecare uomini per la lustra d'una vit­toria alla militare, quando aveva in mano la possibilità di sac­cheggiare le case e le robe dei difensori. Un uomo pratico, in­somma.
Il 16 a sera, la colonna reazionaria attacca Pietragalla.
"Riconosciuta la posizione, invio la terza e la quarta com­pagnia sulla dritta della città, la quinta e la sesta con porzione della cavalleria sulla sinistra, la prima e la seconda verso il cen­tro. Il nemico... apri fuoco vivissimo... Compiuto il fatto, abbia­mo preso alloggio (con i suoi ufficiali, s'intende) per non essere testimonio d'un disordine contro il quale sono impotente, perché mi manca la forza per fare rispettare la mia autorità. Temo che Crocco, il quale ha molto rubato, non commetta qualche tra­dimento."
Del mancato assalto dì Potenza, nulla; ma c'è l'accusa di tradimento contro Crocco, non messa lì a caso, insieme all'ac­cenno della mancata obbedienza e del?in disciplina voluta, anzi ostentata.
Crocco è invece più esplicito nelle sue memorie. Bisogna però notare che, quando Crocco scrive, sono passati trentotto anni e più da questi avvenimenti e che quindi il nostro eroe, avendo perduta ogni possibilità e anche ogni velleità di rifarsi, può permettersi d'essere più esplicito, sebbene neanche lui faccia nomi.
Ecco le parole di Crocco: "Egli (Borjes) aveva precisato es­sere sua intenzione assoggettare i centri minori, dare loro nuovi ordinamenti di governo, arruolare recinte, armi, cavalli, e poscia gettarsi sulla città capoluogo di provincia dove comitati segreti lavoravano a preparare armi ed armati pronti ad insorgere, quando noi avremmo attaccato."
"A Stigliano... decidemmo di continuare l'avanzata, tanto più che Borjes aveva vivo desiderio di giungere presto su Po­tenza."
Giorno 16 novembre. "Siamo nella vallata di Potenza, chia­mati a liberare i carcerati politici ivi rinchiusi. Siamo in trat­tative segrete con i comitati reazionari; è quasi sicuro che al nostro approssimarsi, si avrà un'insurrezione generale. In tutti vi è forte speranza di ricco bottino e di molti piaceri. Presiede il comitato segreto reazionario il signor... un ex capo popolo del '60, liberale dalla sola fascia tricolore, che, non avendo potuto arricchire con la rivoluzione, cambiò bandiera e si fece borbonico, come era prima del 1860. Ma purtroppo codesto e camaleonte politico ancora una volta cambiò colore, avvertì il comandante della piazza, indicò il luogo ove eran deposte le armi che egli aveva poco prima ricevute, intascò i ducati del Barbone e si vantò d'aver salvato la Basilicata.
"Perché non potessero smascherarlo, fece trucidare sulla piaz­za di San Gerardo a Potenza cinque persone, quelle stesse che da lui avevano ricevuto l'ordine di conservare le armi spedite da Napoli. Con mio dolore dovetti abbandonare l'impresa di sog­giogare Potenza e tornammo con la coda tra le gambe, come cani scottati. Ripiegammo su Pietragalla."
Resta dunque fissato dalla doppia testimonianza di Crocco e delle Cronache potentine che l'assalto a Potenza si doveva fare, ma che all'ultimo momento ogni cosa andò in aria. Sappiamo anche dal capitano Pomarici, quello che giunse al galoppo e a tempo giusto dalla sfortunata Vaglio, che il famoso avviso della disfatta dei borbonici veniva appunto da Borjes il quale aveva imposto al sindaco di Grassona di scrivere quell'allegra notizia al suo collega di Corista.
Dunque, Borjes era ben deciso di fare questo colpo; perché non osò? Le ragioni che enumera Crocco, tradimento, scoperta delle armi, uccisione dei complici, non sono valide perché tutti questi fatti, nessuno escluso, avvennero dopo il 16 novembre; ef­fetti casomai, non cause. Quella sera il comandante la piazza di Potenza era sicuro che il nemico fosse lontano, verso la costa ionica, e per di più sconfitto.
E allora come mai Borjes non ne fa neppure cenno? S'è già detto: perché ancora troppa gente utile c'era mischiata den­tro e lui sperava tornarci con una forza sua, una brigata in­ternazionale, capace di fronteggiare i piemontesi e al tempo stesso tenere in soggezione i capimassa, che aveva in animo di formare a Roma.
A noi interessa sapere perché la colonna borbonica, presa che ebbe Vaglio, si valse subito al nord su Pietragalla, non per attestarsi su posizioni migliori, ma quasi a schivare battaglia. È da notarsi che Pietragalla è sulla strada di Melfi e dei boschi di Lagopesole, fortezza dei reazionari, e quindi sulla via della ritirata.
E la risposta, credo, abbia soltanto un nome: Crocco.
Carmine Donatello Crocco era un brigante individualista, professionista libero che non voleva padroni, ma alleanze da fare o da sciogliere come meglio gli convenisse, accanito solo a non cedere la sua libertà, il primo posto e la porzione mag­giore del bottino. È dubbio che la presa di Potenza potesse garbargli, faccenda grossa in cui rischiava di perdere i suo: uomini migliori perché più spericolati e più feroci, e per di più assolutamente contraria ai suoi interessi. Il fatto è che Crocco era ben deciso a non sopportare oltre l'idealismo lealista di Borjes che, al contrario di Langlois, interessato compare, gli fa­ceva i conti in tasca dei derubati e degli ammazzati, con fiere prediche, ragion per cui il brigante non attendeva che l'occa­sione per levarselo pulitamente dai piedi. Ammazzare non lo poteva per mille ragioni e cosi giocò d'astuzia. Per di più, se mai Borjes fosse diventato comandante effettivo d'una truppa disciplinata, la carriera di Crocco era finita. Sarebbe tornato ai guai di prima, in sottordine e con l'obbligo di far l'uomo onesto. Erano passati i tempi di fra Diavolo e il nostro uomo che aveva buon fiuto, sentiva una morale nuova e impacciosa smuovere l'aria morta. E non ne fa mistero. Spigoliamo le sue memorie.
Dopo il sacco di Trivigno, Borjes fa fucilare un brigante che s'era macchiato d'un delitto atroce. E Crocco commenta: Borjes non ingiustamente non attribuì la colpa a me solo; egli però non comprese che, se le stragi e il saccheggio fossero stati risparmiati, sarebbe mancato a lui tutto l'appoggio della mia banda."
Non il trono e l'altare dunque, ma la rapina e la strage. Sono gli eterni motivi d'ogni rivolta agraria: far le vendette necessarie per sé, per i passati e magari per i futuri, vivere un giorno, un mese, un anno da signore "potente," e poi... poi c'è la montagna libera e nel bosco l'uomo di cuore con la cara­bina al fianco, quello sì che è un uomo.
Di quei briganti, dice il Pani-Rossi, il 99% erano giovani la­voratori incensurati.
Conferma Crocco: "I signori eran rimasti soli a difendere se stessi e ciò a causa delle iniquità commesse verso il popolo; abusi vergognosi, avarizia, prepotenze, violenze d'ogni specie, sempre impunite, sempre tollerate... A promuovere la reazione vi concorsero pure questi arrabbiati signorotti di provincia (che pure il Barbone teneva a freno) ì quali con sfacciata millanteria dicevano: 'È venuto il tempo nostro' (la vittoria liberale), E i poveri oltraggiati risposero: 'È venuto pure il nostro tempo.' E così in molti paesi sì ebbero uccisioni, assassina, depreda­zioni. I frutti della guerra civile."
Erano passati quasi quarant’anni, di cui trentasette in pri­gione, ma al vecchio bandito bruciava ancora il sangue. Quella guerra spietata doveva essere roba da coltellate, date a una a una e contate e godt4te, non da colpi di cannone; affare di cafoni arrabbiati, non di militari costretti alla disciplina. Nel suo interrogatorio al processo fu più esplicito: "Dopo la reazione di Vaglio e la resistenza di altri comuni, io feci da guida al generale Borjes, conducendolo al bosco di Lagopesole. Quivi, pensando agli errori che si commettevano nelle reazioni dei diversi paesi, senza alcun utile risultamento, perché invano sino a quel giorno si erano aspettati gli spagnuoli e gli austriaci che Borjes diceva dovessero venire a mi­gliaia in questa provincia, io consigliai tutti i capibanda ad abbandonare questo avventuriero e a dividerci come prima in piccole bande... Ammalizziai tutti gli altri capibanda contro Borjes... Quel generale era veramente un uomo inetto."
Inetto certamente, che non sapeva fare soldi e non cono­sceva l'odio profondo. A un Carmine Crocco che, non fiaccato dall'età e dalla prigionia, rispondeva sdegnoso al presidente del Tribunale, il quale gli aveva chiesto come mai non avesse pen­sato a godersi un po' di pace: 'Nessuna pace mai con nessun governo,' a un uomo cosi fatto la- figura del puro militare dove­va necessariamente apparire come la figura del puro imbecille. Pace no, ma patti si. Epperciò si disse allora, e c'è chi an­cora se ne ricorda, che Crocco vendette Borjes a Langlois, il quale poi lo rivendette ai piemontesi, quando Napoleone III, deposto per ragion di stato il proposito di mettere sul trono di Napoli Luciano Murat, figlio di Gioacchino, volle impedire ai Barboni di ritornarci e soprattutto che gli austriaci ce li accompagnassero. Dissero, e ì fatti poi lo confermano, che una delle clausole della vendita assicurasse salva la vita a Carmine Donatella Crocco, casomai venisse preso e processato. Come in­fatti fu; carcerato sì, fucilato o impiccato no. Nel 1889, prigio­niero ne! Bagno Penale di S. Stefano, s; dilettava a scrivere poesie.
Patti e tradimento a parte, Crocco era troppo intelligente per non comprendere che per lui la presa di Potenza sarebbe stata una disfatta personale. Quando un governo borbonico fos­se risorto in terra di Basilicata, e delle autorità costituite ne avessero assunto il potere, quando l'Austria e la Spagna, quan­do anche la Francia forse, avessero cos'i trovata una ragione decente per intervenire, come allora pareva cosa probabile non solo ai borbonici, ma anche ai ministri del Regno d'Italia, quan­do insomma a comandare sarebbero stati governatori, generali, signori, che sarebbe accaduto di Crocco? La Basilicata borbo­nica voleva dire la guerra con gli ufficiali, i soldati, i cavalli, i cannoni, la guerra insomma di secessione che i tre quarti dei napoletani speravano. Ma Crocco era stato soltanto caporale nell'esercito borbonico e generale no, come lui stesso dice quasi a vanto: "monti, foreste, cavallo, fucile conosco, il resto niente."
Diciamo la verità, l'800 era un secolo che si fingeva morali­sta e in fondo ogni galantuomo si sarebbe vergognato se fosse stato costretto a confessare d'aver dovuto accettare i buoni uf­fici da un ladrone. S'era fatto tanto chiasso da tutte le cattedre d'Europa contro il cardinale Ruffa e la Santa Fede! Crocco già c'era cascato prima coi liberali e gli scottava forte: amico amico, dammi la mano ch'io ti dò la mia, finché durava il pen­colo, dopodiché vollero cacciarlo nel fondo d'una prigione per­ché... perché? Ohe, bandito, la legge è la legge e noi siamo gente morale. Sicché gli toccò salvarsi buttandosi ancora una volta alla macchia. E chi sarebbe tornato a comandare? I si­gnori, i nemici eterni, che vogliono l'ordine per godersi in pace la proprietà. E della sua rivoluzione, quella delle pezze al culo, che ne sarebbe avvenuto? Finita, morta, schiacciata dai gendarmi e dai soldati la rivoluzione dei poveri. Sarebbe ricominciata quella dei ricchi.
Sì, stai fresco! Ca, si disse sicuramente Crocco, nisciuno e fesso. Così a Borjes toccò prendere la via di Roma per con­sigliarsi con Re Francesco; l'autorità seppe subito della sua parte ma e indovinò, ma che sagacia! la strada che intendeva fare; ragion per cui, l'8 dicembre le pallottole dei bersaglieri lo fer­marono alla masseria della Lupa, presso Tagliacozzo, a un passo dalla salvezza. Fu una cosa forse non perfettamente legale, ma pulita e fatta bene giacché raggiunse il suo scopo ed è risaputo che i morti non parlano,
E quei banditi che abbiamo visti, nel primo intermezzo, andar baldanzosi a una comoda prigionia dove trovarono ri­spetto e buoni pasti? Anche qui ci aiuta il Riviello, dandoci no­tizie definitive, perfettamente d'accordo con le memorie di Crocco.
"Nella sera del venerdì tra il 6 e il 7 dicembre, notte orri­bile per pioggia, neve, e vento, Luigi Palese, capo custode delle carceri, andò nella camerata dove erario Vincenzo D'Amato, detto Stancane, Francesco Pugliese, Nicola Clienti e Luigi Ro­manelli e, come li ebbe svegliati, ordinò loro di farsi il fagotto perché a quell'ora stessa dovevano partire per Salerno. All'i­naspettato e notturno annunzio, il D'Amato, battendosi con la mano la fronte, disse: 'Ho capito; ce la fanno.'
"Il Palese lo confortò a non temere nulla, Partirono subito, accompagnati dai bersaglieri.
"La mattina dopo, sulla piazza Sedile (che Crocco chiama di San Gerardo, per l'edicola appunto del Santo) sopra una carretta stavano esposti quattro cadaveri, trapassati a colpi di baio­netta e coperti di neve, come se fosse un funerario lenzuolo."
Anche qui, e più sicuramente che nell'uccisione del Borjes e i suoi compagni, la legalità andò a farsi benedire, perché questi non erano stati presi con le armi alla mano, s'erano presentati volontariamente e avevano diritto d'essere giudicati da un tribunale regolare; ma la necessità di turare ogni bocca, d'evitare ogni scandalo fu più forte d'ogni altra considerazione. Pie forte della libertà fieramente proclamata e dell'inconcussa giustizia altamente affermata. Con la legalità, andarono anch'es­si allegramente a farsi buscherare.
Ce ne dispiace per i bersaglieri cui toccò far la parte del boia. Ma si trattava, direbbero i tedeschi, di truppe scelte.
Quattro cadaveri. Veramente Crocco ne riporta cinque; ma si capisce che a lui il numero non importava un gran che; quei quattro ce lì aveva mandati lui in galera e, quando non gli servivano più, li lasciò cadere nel nulla, baionettati sotto la neve. Uno di più, uno di meno, che importanza ha? Forse quello di più non era in prigione e lo fecero fuori a parte, in segreto, pulitamente. Il fatto è che chi non serviva fu tolto di mezzo e qualcuno si rifece una verginità patriottica. Chi era? Mah! Siccome né Crocco né Borjes ne fecero il nome, nep­pure noi lo facciamo, anche perché in un romanzo avrebbe da essere un nome fittizio, inventato, proprio da romanzo.
In ogni modo, con questo finale giallo sì concluse una vi­cenda che minacciava di portare seri strappi all'unità d'Italia, e Crocco il bandito, il reietto. Crocco il bestiale, ne fu l'eroe. Felicemente e con la buona salute.
Però a Potenza le acque, in superficie, non fecero spuma o fragore d'onda, e nessuno ne seppe niente.

All’interno di questi scontri, si fa spazio la storia di Ugo Navarra. Ugo era un esperto tenente che fu ferito durante una di queste battaglie e fu tratto in salvo da Maria, una vedova di sangue albanese del luogo. Da lì nacque un amore tra i due che fu distrutto dall’esercito piemontese che, durante una rappresaglia, uccise prima la donna e poi Ugo.
L’episodio fu raccontato dai Piemontesi in maniera falsa: essi, infatti, accusarono Ugo di aver violentato ed ucciso la donna, facendo passare per un animale Ugo che, invece, era un gentiluomo.
Gerardo ed Andrea si conobbero grazie alle riunioni segrete fatte dai reazionari e divennero amici.
Gerardo, stanco di aspettare, voleva agire, ma Andrea gli disse di fidarsi dell’organizzazione e di attendere ancora un po’. Gerardo, però, non poteva più attendere perché, quando fece ritorno a casa, trovò dei carabinieri alla porta e, per salvarsi, fu costretto a sparare e a fuggire. Gerardo entrò a far parte dell’esercito di Crocco, dove era sicuramente più vicino alla morte ma, secondo lui, più partecipe alla rivolta.
Un giorno, la Priora discusse con una giovane ragazza e, colpita dalla sincerità d’animo della giovane, cominciò a fare un serio esame di coscienza: la monaca capì che aveva sbagliato a vantare diritti su quelle proprietà, perché una vera suora non poteva possedere nulla.
Così, una sera, la Priora fece preparare una grande cena ed ammise pubblicamente i suoi peccati, ma dopo poco fu costretta ad andare a letto, perché non riusciva più a reggersi in piedi.
Nel palazzo Guarna c’era grande agitazione, perché la madre priora stava per morire ed in quel trambusto Juzzella, una ragazza del popolo dei cafoni, che si era innamorata di Gerardo, scappò via. Andrea e Isabellina furono molto vicini alla zia in quei difficili momenti. Un giorno arrivò il notaio che salì in convento per scrivere le ultime volontà della priora. Vi fu subito l’interesse dell’avvocato e di Andrea che seguirono il notaio fin sul convento. L’avvocato, alla lettura del testamento della priora, sbiancò, perché la monaca donò tutto al Re e non lasciò nulla a Don Matteo; infine, ella lasciò un crocifisso ad Isabellina che, laica com’era stata educata negli istituti, vide quel regalo come un segno.
Nel frattempo, l’esercito di Crocco fu sconfitto. Andrea si sposò e fuggì a Roma con Isabellina, inseguendo l’amore e non più gli ideali patriottici. Gerardo, scampato alla morte, non sapeva che cosa fare: non aveva soldi, non aveva un lavoro e non aveva neppure più una patria. Se Gerardo fosse infatti tornato a Napoli sarebbe stato ammazzato al primo passo. A Livorno, Gerardo incontrò un altro amico che gli propose un affare simile a quello proposto da Schaub e capì che, alla fine, un ideale non sempre può trionfare.
Il romanzo presenta un grado di storicità piuttosto elevato.
Infatti, la vicenda narrativa si intreccia profondamente con alcune vicende della Storia, come l’applicazione delle ‘Leggi siccardine’ nell’ex Regno delle due Sicilie, la rivolta politicizzata dei briganti contro lo Stato unitario ed in particolare l’episodio della sollevazione del brigante Crocco.
La struttura è quella tipica del romanzo storico però, mentre nel romanzo storico tradizionale emerge un protagonista, in questo romanzo vi sono tre storie, tenute insieme dalla figura della priora.
Il finale della vicenda non corrisponde alla fine della Storia, tanto è vero che i personaggi proseguono la loro vita per proprio conto. Andrea si sposa con Isabella e scappa a Roma, mentre Gerardo parte per la guerra di Secessione americana, lasciandosi tutto alle spalle.
Carlo Alianello ci mostra, attraverso l’ottica delle varie classi sociali, come le rivolte delle regioni meridionali contro l’unificazione nazionale siano state vissute dalla popolazione meridionale. La tesi di Alianello è stata portata avanti in tutto il romanzo: infatti, per lui il Sud è stato conquistato ed è stato trattato come terra di conquista e, di conseguenza, era diventato ancora più povero di come i Piemontesi l’avevano trovato.
Emblematico è il discorso fatto da don Rocco il giorno della presentazione degli ufficiali piemontesi. In quel giorno fu fatta una festa ed il sindaco presentò gli ufficiali come fossero eroi, ricordando i morti delle popolazioni del Nord per ottenere quest’Unità. Questo discorso presentò la popolazione del Sud come privilegiata e don Rocco si alzò esausto dalla sedia ed evidenziò con toni forti che il Sud non aveva nulla da rendere al Re, poiché anch’essi avevano i loro eroi, facendo notare che erano più i cadaveri meridionali degli eroi settentrionali. Don Rocco aggiunse che la conquista del Sud fu anche un vantaggio per i Piemontesi. Fu grazie all’unione col Sud che si poterono pagare le spese di guerra, prosciugando le casse della banca di Napoli, una delle banche più ricche d’Europa. Queste azioni predatorie attuate dai Piemontesi avevano creato un malcontento comune nel popolo, dovuto ad un aumento della disoccupazione ed al conseguente impoverimento del Sud.

"Cittadini!”
"L'Italia, questa classica terra, oramai non è più la terra delle rimembranze e dei rimpianti. Noi cittadini di essa, non pili piangeremo sulle perdute grandezze degli avi! Pur noi vediamo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l'erme torri, ma, più fortunati incomparabilmente del poeta, abbiamo potuto mirar con le pupille nostre la gloria e il lauro e il ferro. Coito, Palestre, San Martino, Gaeta... Ferro e sangue, ferro e gloria... Però, non vi stupite, signori, se io ho l'ardimento di svelarvi un mio riposto pensiero: forse queste fronde d'allo­ro sarebbero ancor poche, ancor modesta gloria al confronto delle corone dei padri antichi, se non le indorasse una fiaccola che essi non conobbero mai: voglio dire la libertà! Ora Monarchia e Libertà si hanno dato l'amplesso di virtù e questo amplesso si chiama Statuto
[1].
"La nostra terra lucana, oggi negletta e devastata da pochi perfidi, fu un tempo gloriosa, quando la reggeva dai suoi castelli dì Lagopesole e di Melfi il grande Federico, antesi­gnano dei tempi novelli, amico del popolo, aquila eletta d'im­periale grandezza, nemico dei papi, come quello che non teme sfidare la scomunica, oggi fulmine imbelle, ma allora, in tempi barbari, poderoso strumento di guerra, per amore del­l'intatta e intangibile libertà del pensiero. Ma, dopo quei dì felici, parve che il sole non sorgesse più sui nostri monti e fu eterna notte! "
Qui il sindaco fece una pausa; sbuffò e s'asciugò il sudore. Andrea guardò il prete liberale che, tutto spaparanzato sulla poltrona, si grattava un ginocchio e faceva di sì con la testa, serio serio.
Nel silenzio s'intese ancora lontano un brontolare di tuo­no, sordo e continuo.
"Oggi il sole, affé di Dio, è tornato tra noi," riprese il sin­daco, ma il rombo d'un tuono, uno schianto vicino e perentorio, gli troncò la parola; qualche signora lanciò un gridolino, qual­che uomo impallidì. Il sindaco sorrise sdegnoso: "Sprechi pure tutti i suoi fulmini Giove, io inneggio al sole. Quel sole che nessuna nuvola può velare, che nessun moto del nostro globo, vuoi di rotazione, vuoi di rivoluzione, può nasconder­ci! Quel sole, che io mi onoro di mentovare, si chiama:Vit­torio Emanuele!"
Scoppiò un forte applauso.
"Signori," riprese il sindaco, "cos'è lo statuto? È arra, ga­ranzia di libertà, libertà esso medesimo. La libertà invocata da mille martiri, conseguita con sudore, con sangue, con languo­re di italiani infiniti ha un nome: Statuto.
"O i martiri di Belfiore! O le fosse di Mantova..."
Ma s'interruppe bruscamente perché in piedi su una seg­giola contro la parete della sala si dimenava freneticamente un uomo piccolo, nero e secco, con una faccia spiritata di prete spretato, ma scattante, sfrontato, che faceva di no con il brac­cio, che no, che non è vero.
"Eh?" fece il sindaco sbalordito. "Che vuole don Rocco Brienza?" E spiegò: "Eccellenza, signor governatore, quello è un martire che ha provato la galera borbonica.,. Neh, tu che vuoi don Ro'?"
"Ma che Belfiore e Mantova mi vai contando?" urlò quello. "Solo loro si credono che hanno fatto l'Italia! E noi? Io ri­spetto quei morti, i morti degli altri, ma vanto i miei. Questo è il bis del fatto di Curtatone e Montanara, dove hanno com­battuto i napoletani, ricacciando il nemico, e il vanto se lo so' pigliato i toscani fuienno fuienno...
"In questa provincia... duecentomila anime... che so'? Man­co na città..." disse solenne, ma con una voce aguzza, più che stridula, don Rocco Brienza, ex curato, "dal 1799 a tutt'oggi, sono morti impiccati, assassinati, fucilati, condannati a carcere a vita, più di tremila persone, e io tengo i nomi segnati uno per uno, tutti per amore di libertà... E nessun re gli ha teso la mano, nessun patto tra tiranno e popolo, statuto nessuno. E, se questi signori che vengono dal Piemonte, dalla Lombar­dia, dalla Toscana, possono provare che a casa loro, in una citta sola, in una provincia sola, i martiri del nostro risorgi­mento sono stati tanti o più... ebbene, allora noi ci leveremo il cappello e parleremo parole d'umiltà; ma fino allora, no. Ognuno si tenga i martiri suoi e vanti quelli.
[2]"
Saltò giù dalla sedia e si rimise a sedere. Un alto brusio riempì subito la sala. La gente parlava ad alta voce, rideva l'uno chiamava l'altro: "Ha ditto buono... Che buono e buo­no... siamo fratelli o no? Neh, Vide, io ci mettessi 'a firma... Ma non qua, non in questa occasione, avanti alle autorità... E tu quanno caspeta glielo vuò fa senti? Educazione, educazione... E dobbiamo essere fatti fessi per omnia saecula saeculorum? Viva l'Italia!"
Il giudice già si tirava su dalla poltrona, don Ciccio correva dall'uno all'altro supplichevole, mentre il governatore allun­gava il collo magrissimo verso don Rocco Brienza, per veder­selo meglio, e il generale comandante il presidio si tirava furio­samente un baffo, quando il sindaco salvò la situazione.
Si volse al capobanda che gli stava al fianco nella tenuta di sotto luogotenente della guardia nazionale e gli soffiò: "Guagliò, 'a marcia rriala!"
Quello sorrise e fece un cenno. Il tamburo rullò e tutti si azzittirono stupefatti. Ma era solo un preludio; subito sbot­tarono e svolazzarono per la sala le note fracassone e frivole della Marcia Reale.
Quando l'inno fu terminato con uno zum! perentorio, in­cominciarono le danze.
Anche Andrea ballò con Isabellina la quale non volle accet­tare inviti da nessun altro, quasi fosse già la sua fidanzata. Andrea era in uno di quei momenti non rari in lui in cui la giovinezza gli risaliva d'improvviso a galla, impetuosa e gaia. Miracolosamente e spesso senza una ragione che apparisse, la tensione continua di stare all'erta e sulla difesa non c'era più, dimenticata, e lui tornava ad essere l'uomo dì prima, anzi il ragazzo d'un tempo. Assommava da acque profonde per guar­dare ancora all'avvenire ridendo. Tutto lo eccitava: la musica languida dove è facile abbandonarsi al ritmo, i visi gai delle donne, le facce accaldate e quasi truci degli uomini tutti presi nell'impegno inconsueto di tenersi in braccio una donna che non è loro e portarla debitamente, come delicatissima porcella­na, dentro quei ghirigori di passi e di note" di cui non avevano l'abitudine, i tremila martiri di don Rocco Brienza e la co­mica esultanza, se questa parola vien dal verbo saltare o saltellare, del generale Chabet che aveva imbracciato la moglie del sindaco, un cosino minuscolo, magra magra e svelta svelta, e la costringeva a un ballonzolo meditato e sempre il mede­simo, tre passi avanti, tre di lato e una piroetta.
Lo rallegrava soprattutto quella mescolanza confusa, tra­scinata, saltellante, franta che il valzer faceva vorticare in giro, mentre i flautisti e i sonatori di cornetta dondolavano la testa qua e là a seguire il ritmo, come marionette impassibili.
Il sentirsi poi tra le braccia il corpo fragile e morbido d'Isabellina che gli pareva la più bella della festa, lo trasportava fuori di ogni realtà. Solo questo è verità, il resto è sogno. Domani questi uomini, queste uniformi, queste facce, non saranno più qui o non saranno più
[3].
Altra gente, altre divise, altra allegria... domani.
E lui è lì a preparare questo domani, ma loro non lo san­no; come se il suo io vero fosse invisibile. Ci aveva pensato tante volte da ragazzo: che avrebbe fatto se avesse avuto l'anello di Gige, quello che ti nasconde agli occhi di tutti?
Cercò con lo sguardo Gerardo e lo vide subito nel folto della mischia, abbracciato senza tante delicatezze a una bruna giunonica che rideva forte, mentre ballava come se andasse alla carica, con giri vorticosi e imprevedibili passi; pareva si divertisse, ma il viso l'aveva assorto, anzi cupo.
C'era un gruppo di galantuomini in marsina che faceva­no circolo attorno a un capitano piemontese e parlavano forte, gesticolando.
Il capitano aveva afferrato per un bottone della sciammeriga don Rocco Brienza e scrollava il capo, non per sdegno, ma per rimproverarlo bonariamente, con una voce pastosa, tutta di petto: "Ch'ai scusa... che mi scusi... Va bene che il primo uomo che disse la verità l'impiccarono, ma... ma ma. Quel che lei ha detto l'è mica una cosa patriottica. Che si metta bene in mente che siamo tutti fratelli... anche se c'è qualche differenza tra noi e voi. Ma i martiri di Belfiore, boia d'un mondo, non si toccano! Italianissimi quelli, italiani noi, e an­che voi."
Non è 'o vero," disse don Rocco. "Noi siamo italiani, di razza, voi no. Però mi dovete fare la finezza di credere che io non parlo di Napoli città o di quelli della pianura. Parlo dei montanari dell'Appennino, dagli Abruzzi in giù fino alla Calabria. Diciamo: dall'Aquila a Lagonegro."
"Come? Come?"
"Noi siamo italici e voi... nu poco 'e tutte cose... francesi tedeschi, alpini, magari svizzeri, ma italici no
[4]. Abbiamo dor­mito, e 'o vero, quanto tempo? Mille anni e più. Embè, ci siamo riposati. La fatica di Roma fu fatica nostra... e mò priate 'o Pataterno che nun ce vulimmo sveglia n'ata vota."
"Zitto, zitto, don Ro'," intervenne il sindaco. "Lassammo sta e ccose defunte. Come dice il poeta? 'Una d'arme, di lin­gua, d'altare, di memorie, di sangue e di cuor...' L'Italia, l'Italia nuosta, unita!" E alzò gli occhi al soffitto.
"Quando mai?' ribattè violento don Rocco. "Tu... qual arme, quale sangue, quali memorie? Forse intendevi tornare addietro, ai tempi di Roma repubblicana e della lega italica? Perché sulamente tanno... allora... Ma questi signori neppure esistevano a chelli tiempe..."
"Ma cosa mi va dicendo di lega italica, lei?" protestò il capitano piemontese che viceversa fino a un paio d'anni prima era stato suddito del Papa. "Mi dica bene..."
"Dico bene, dico bene... che? devo dire male? E perché?"
'E io," disse il capitano, "che sarei? Io son di Bologna, ad Buleigna."
"Voi siete un gallo," rispose serio serio don Rocco.
"E mia moglie una gallina... Ah, ah ah!" E il capitano scoppiò a ridere. "Mò Té bein una gallina, la mia signora, col suo bravo cocodè! Lei la dovrebbe vedere quando che la porto a passeggio, che la scodinsola col suo crinoline! "
“II fatto è", disse don Enrico Maffei, "che sotto i Borboni, noi vi credevamo davvero fratelli. E per questa fratellanza abbiamo rischiato la forca, l'ergastolo, le galere. Non vi sape­vamo ancora e non potevamo supporre, neanche io lo pensavo, che una monarchia ne valesse un'altra... Poesia, poesia. 'A verità, l'Italia unita l'hanno voluta i letterati. Libertà, egua­glianza, fraternità. Guardatevi attorno e ditemi dove stanno. Voi siete venuti qua come dentro l'Africa selvaggia senza sa­pere niente e ancora v'ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo inferiori a voi, soltanto perché siamo differenti. Nego. Ma a qualcuno può fare comodo pensarlo, a qualcuno dei nostri persino. Embè... il fratello che fa? Sten­de la mano al fratello. Avreste dovuto venire qua a portarci lavoro, istruzione, il progresso... Non siete quelli che ci hanno redenti dalla barbarie borbonica? Almeno aveste portato la giustizia! E invece ve la siete sbrigata con quattro gendarmi e quattro avventurieri. In questo campo i Borboni sapevano fare meglio. Diamo merito al merito. Il guaio è che adesso la frittata è fatta e come si rimedia più? Ci avete fatti fessi... e così sia. Ma, se si potesse tornare indietro e ricominciare da capo... patti chiarì, amicizia lunga... Altrimenti non entre­reste più con tanta facilità nel Regno di Napoli. E questo tenetevelo bene a mente. Ora, come ora, vi dobbiamo chiamare fratelli a forza e... se no, cosa saremmo noi? Noi, galantuomi­ni liberali?"
"Ma se qui... se il Regno delle Due Sicilie, boia d'un mon­do..." strillò il capitano, "non l'era mica la negassione di Dio?"
Don Enrico alzò le spalle. Era piccolo, sottile, vecchio di suo, ma invecchiato ancor più da molti anni di galera. Portava la capelliera tutta candida fin sul collo, alla trovatore, ed era sbarbato, fuorché due mostaccini lunghi ed esili, bianchi an­ch'essi, che dal labbro gli scendevano a incorniciargli il mento. In ogni sua cosa era netto e asciutto come un grillo.
"Tempo di guerra, caro capitano," disse don Enrico, "pili bugie che terra... e si capisce, quelle che fanno comodo al vin­citore rimangono; le altre cadono... E questa è stata una delle più grosse, un'arma potente. Gladstone che ce l'aveva con i Borboni per la ragione degli zolfi di Sicilia e pure perché... Mbè, tutti sanno perché e non sta a me dirlo; Gladstone cacciò fuori sta frase. E ste parole sono rimaste verità assoluta, indiscutibile, che non falla... E perché? Perché il grande uomo inglese aveva visto da lungi una prigione... che dico? un'isola, dove gli hanno detto che dentro ci stava una prigione... Nisida precisamente. Ma nessuno s'è accorto mai che quello parlava nell'interesse suo o del suo paese. Nisciuno gli ha chiesto: neh, voi che vi scandalizzate tanto... voi che ne fate degli irlandesi? Quanti ne fucilate, quanti ne impiccate, quanti ne bru­ciate con le case e tutto? Ci volete fare la finezza di mostrarci le prigioni irlandesi? O di carceri state nu poco scarsi perché i vostri ribelli ve li cucinate uno per uno con le mani del boia? Subito subito? A l'ampressa? Io sono stato a Londra, esule, e non m'hanno trattato male... Però... non ho mai visto tanto ghiaccio tra uomo e uomo. E chella terra fredda, ambiziosa, spietata, dovrebbe essere l'affermazione di Dio? 'A verità, da­vanti a un poverello londinese, ogni lazzaro napoletano è nu re! E la prigione dei debitori? Na cosa puzzolente. Da noi erano anni che ce n'eravamo scordati. Gladstone ha fatto il dovere suo d'inglese e di protestante; la bugia però resta bugia."
Ma come?" chiese sbalordito il capitano che aveva sentito spesso vantare il Maffei per il nemico più acre in Potenza del passato regno. "Lei parla cosi? Lei che è stato tanti an0ni legato con la catena infame del galeotto?"
Don Enrico si tirò uno dei mustacchi e crollò la testa. Lui era un mazziniano di stretta osservanza, un misto di soldato, di monaco e di cospiratore. Ma era anche un uomo giusto. Due anni più tardi il generale Bixio avrebbe voluto trapassarlo con la sciabola da parte a parte, se non lo avessero trattenuto, per avergli sentito dire qualche verità spicciola, ma spiacevole.
"Io," disse, "ho pagato quanto dovevo e forse meno di quanto mi spettava. Sapevo quello che costava il cospirare: tanto dì forca, tanto d'ergastolo, tanto di catena. Mi sono fatti j conti prima, da me, dentro le tasche mie, e ho detto: si può sopportare la spesa. E m'è andata bene. M'è andata bene, perché sono nato qui. Se Ferdinando II avesse avuto il cuore piissimo di Carlo Alberto, nel '36, quando atterrito dall'eco lontana di Mazzini, faceva fucilare i repubblicani a dozzine, a quest'ora io ero bell’e morto, sepolto o gettato in chissà che fossa con svariate pallottole nella schiena. Non avete letto Mazzini? Non lo sapete che ai prigionieri si negava il sonno e il cibo? Ch'erano tenuti a catena con collari di ferro in antri fetidi? E noi quando l'abbiamo sapute mai ste fetenzie? Eppure chello, crudelissimo, traditore, bombardatore, nisciuno l'ha chiamato Bomba. Mò 'o stanno facienno pure santo..." "A proposito di Bomba," aggiunse poi, "voi, noi, tutti, ab­biamo chiamato così quel povero Ferdinando perché ha fatto sparare una mezza dozzina di obici su Napoli ribelle... E sta bene. Ma i! vostro re, allora?
"Nel '49, questo re, questo Vittorio Emanuele che si fe­steggia qua, adesso, per due giorni ha fatto bombardare Genova dal generale La Marmora, accussi, alla brigantesca, dove coglie coglie, chi piglia piglia, per due lunghi giorni, mannaggia! E chi gli può dicere Bomba, Bombette o Bombina? .Galantuomo era e galantuomo è rimasto.
"E notate bene che Napoli s'era ribellata al re per cacciar via i Borboni; ma Genova no. Genova voleva soltanto che non la consegnassero agli Austriaci, in pegno dell'armistizio. Ita­liana voleva restare, non tedesca: il che è sommamente pa­triottico, leale, lodevole, ma... a un Savoia tutto è permesso. E... allora come la mettiamo co' stu re Bomba?"
"Ch'ai scusa..." sbraitò il capitano esterrefatto. "Ma qui, mi dica bene, io sto tra amici o nemici?"
"Tra amici," lo assicurò una voce sonora, autorevole. "Ma dove è scritto che l'amicizia ha da campare solo di bugie...? Anche quelle ci vogliono, si capisce, ma... guardiamoci negli occhi finalmente."
Era entrato a parlare un altro galantuomo, alto, smilzo, con un pizzetto grigiastro sul viso bruno. Doveva essere una per­sona d'importanza, distinta, che vestiva con eleganza dignitosa e aveva le mani lunghe, affilate, da artista. Il sindaco lo pre­sentò al capitano: "Questo è don Raffaele Silva. Il nostro mi­gliore chirurgo... Nu spirito, come dire? a modo suo. Com­pone poesie per le signore, suona divinamente il violino..."
Intanto era giunto il momento culminante della festa con la distribuzione dei gelati e dei pasticcini, mentre l'orchestra riposava. Perciò intorno ai galantuomini che discutevano s'era raccolta una piccola folla e quelle voci, vibrando a volta, si levavano sopra il confuso chiacchierio della gente che parlava sottovoce, perché è il parlare basso quello che fa il signore.
"Que dit on là?" aveva chiesto il generale de Rolland. "Que... avviene?" E don Ciccio, il commendatore, che gli stava accanto, s'era affrettato a rassicurarlo: "Niente, niente... È una usanza di qui. I signori che nun vonno balla, discutono un poco... Come si dice? Fanno nu..."
"Un ludo," gli suggerì don Totonno Spera, serio serio.
"Come?" chiese sottovoce don Ciccio. "Avvucà, nun me facile dicere fesserie."
"Il ludo polemico," ribattè freddamente don Totonno che era infarinato di lettere. E il commendatore ripetè paro paro: "lì ludo polemico, signor generale."
"Ah!" fece il prefetto. "Très interessant"
"Ma mò finiscono," lo rassicurò don Ciccio, "quando si riprende il ballo. Intanto pigliateve o gelato. Pure il signor generale don Chabbé..."
Infatti veniva trionfante verso di loro il sindaco, che aveva lasciata a mezzo la discussione, scortando un valletto in polpe e una guantiera o, diremo meglio, un vassoio, colmo di pezzi duri, spropositati, montagnole di gelo addirittura.
"Vedete," diceva il dottor Silva al capitano. "Voi avete sentito le vanterie dei Settembrini, dei Poerio, dei Nisco che, grazie a Dio, sono usciti dalle galere floridi, polputi e pieni di... beh, diremo: pieni di belle speranze. Letterati sono e 'a forza hann'a fa chiacchiere. Ma io ho letto il libro d'uno dei vostri: Le mie prigioni di Silvio Pellico. Un bellissimo libro. Embè, quello era un uomo e quelle erano prigioni. Chiuso in una cella, con aria poca, cibo scarso e cattivo, che bastava solo a non farlo morire di fame, lui e i compagni, senza nu libro, na parola d'amico, con quelle cotali facce di sbirri at­torno, stranieri, ca si se metteva a fa o capuzziello, voglio dire, se si fosse mostrato indisciplinato, superbo, gli facevano passare i guai suoi... e non dice una parola che non sia digni­tosa, cristiana. E quelli tedeschi erano i suoi oppressori, non italiani. Invece, che ne sapete voi di questi signori eroi napo­letani? Graziati due o tre volte della vita, accrescono l'odio che tenevano in corpo, ricominciano a rifriggere congiure inette, risibili, e tornano carcerati... Embè, Io Stato, qualunque stato si deve difendere, si vò campa, a ragione o a torto, e voi ce ne state dando la prova, per la sua eticità medesima... come ha sottinteso benissimo il mio amico don Enrico Maffei che non s'è vantato mai della sua lunga prigionia. Il Piemonte, sotto Carlo Alberto, s'è difeso. E perché il Piemonte si e Napoli no? Dal '48, il tiranno Ferdinando non ha mandato al pati­bolo nessuno, avete capito? nessuno... e perciò l'hanno fottuto... soltanto uno, per la ragione ch'era un soldato. Il militale, se s'addormenta quando sta in sentinella tu l'uccidi, se scappa in combattimento tu l'uccidi, ma viceversa, se vuole dare na botta 'e curtiello, un colpo di baionetta al suo generale in capo, al suo Re, no? Quel calabrese, sissignore, che gli menò una baionettata alla rivista... lassammo sta 'o nomme; nun me piace. Un traditore, comunque sia, è un traditore..."
"Caro signore," ghignò il capitano, "quando c'è di mezzo l'unità d'Italia! L'è un'idea ben grande sa! E quell'uomo s'è sacrificato... un eroe."
"Un eroe, sissignore. Però mi faccio lecito di dirvi che non c'è nessuna idea umana che valga più dell'uomo; la parte più del tutto. Un eroe? Soltanto, se quel re invece di chiamarsi Ferdinando, si chiamava Vittorio Emanuele, e quel soldato invece d'essere un Cacciatore a piedi, fosse stato un bersagliere che voleva scannare il suo Re per un'idea anche più grande... mettiamo l'unità dell'Europa, quel mio signore... e dimmelo pure stu nomme! quell'Agesilao Milano, non l'avreste messo al muro e fucilato come traditore e carogna fetente? È 'o vero? Lo vedete che il poeta si sbaglia e noi non siamo eguali né di lingua né di cuore
[5]?"
"Ma... ma..." barbugliò il capitano, "l'è una cosa tutta dif­ferente..."
"Nossignore," ribattè don Raffaele. "Per noi ogni uomo è un mondo, tutto il mondo intiero, e ogni uomo è pure un figlio di mamma che n'è costato lacreme! Non c'è differenza. Ha pianto e ha fatto piangere, anche se è re; una cosa tremen­da e santa, l'uomo. Ci ammazziamo anche tra noi, è vero, ma i nostri uccisi non sono mai numeri, morti in astratto... d'ognu­no ci rimane almeno un gemito nel cuore, perché ogni uomo è lui, unicamente lui, e non può essere un altro, e soltanto per questo l'abbiamo ucciso. 'E capite ste ccose? Ogni tradimento è eguale a ogni tradimento, ogni delitto a ogni altro delitto, perché nun ci sta nessuna verità che lo cancella, siccome la verità è una cosa astratta e l'uomo, mannaggia! è carne e sangue. Il bene e il male nessuno li può cambia, manco Iddio Si­gnore. E vedete che forse non siamo neppure eguali d'altare," Tacque un istante, mentre il capitano sbuffava. "Sono curiosi, veh! questi meridionali! II paese l'è pieno di briganti e ladri e lor signori ci voglian fare lessione di morale?"
Ma don Raffaele non lo stava a sentire; "Lassammo sta stu fatto... e torniamo a Napoli, negazione di Dio, e ai nostri celeberrimi carcerati. Recidivi tutti, hanno celle in comune o almeno celle comunicanti da cui vanno e vengono liberamente. Si fanno da mangiare come gli piace, perché quello che passa il convento non è di loro gusto. Il Settembrini si leva lo sfizio di tradurre Luciano dal greco... E visite alla signora del coman­dante, carezze ai piccirilli, e confetti e tarallucci e vino... Eppoi bigliettini e denari che entrano e escono. Voi sapete cos'è Montefusco? La peggiore carcere del Reame, una cloaca, di­cono. Ci sta pure il proverbio: 'Chi trase a Montefusco e po' se n'esce - pò di' ca 'n terra n'ata vota nasce.' E sapete di che si lagnavano i detenuti politici di Montefusco? Mò ve lo voglio far sentire; ecco là uno dei martiri."
E chiamò: "Peppi, don Peppino!" e siccome pareva che il chiamato non sentisse, alzò la voce; "Onorevole!"
Finalmente l'uomo che se ne stava in un angolo ad assa­porare golosamente il suo gelato si scosse e si voltò a guar­dare. Era bassotto, grassoccio, con un faccione d'un bianco terreo, sotto la capigliatura nera, ricciuta e tutta fitta: "Vulite me?" chiese.
"Si; nu momento. Siente... E che? Da che t'hanno man­dato a Torino, ti fossi fatto forestiero?"
Dubitoso e crucciato, forse per non avere potuto terminare il suo pezzo duro in pace, don Peppino s'accostò al gruppo: "In che vi possiamo servire, dottò?"
"Capitano," disse don Raffaele Silva, "vi presento uno dei martiri dell'unità d'Italia, l'onorevole don Peppino Tiengo, deputato del collegio di Anzi al parlamento di Torino, che fu a Montefusco, col duca di Caballino, Sigismondo Castromediano, patriotta insigne di cui avrete inteso parlare, col Poerio, col Nisco, col Braico eccetera eccetera... Dincello nu poco al capitano, Peppì, il fatto dei polli e dei piccioni e come voi, degnamente, protestaste."
Il viso pallido dell'onorevole s'illuminò d'un sorriso, men­tre gli brillavano gli occhi: "E si capisce," disse. "Quelli, il capociurma e gli altri comiti, ci volevano fare fessi... Nce jevano a accatta..."
"Ci andavano a comprare..." tradusse il dottore.
L'altro spinse le labbra, anzi i labbroni in avanti, a suc­chiello: "Quanto vi prego, don Rafaele, pure io so parlare..." e subito riprese: "Capita, cierte pullanche che manco erano pulecini... Polli, sì, pollastri, come dite voi in taliano, e i pic­cioni, comme ve vuoglio di'?, tale e quale ai... ai passeri, piccirilli, teseche... e ce li volevano fare pagare come qual­mente fossero buoni e grassi... Camorristi, si capisce... 'a ca­morra s'è magnata Napule. Qui ci abbisogna una scopa, spaz­zare e spazzare buono, capita, si vulimmo n'Italia bella, un'Italia nuova, degna del re nuovo di casa Savoia!"
"L'avete sentito?" chiese don Raffaele, "nel loro martirio, modestamente, i polli che mandavano a comprare gli pare­vano poco teneri e magrucci... E mò ditemi : quando mai Silvio Pellico ha mangiato piccioni e galletti nelle carceri sue?" e scoppiò a ridere.
Don Peppino Tiengo alzò la testa e corrugò le sopracci­glia; gli pareva che quell'altro se lo volesse ripassare, ovverosia uccellare, sbertare o berteggiare, ma queste parole lui non le sapeva, Insomma, che lo volesse fare fesso. Intanto il gelato si stava squagliando e dal piattino gli gocciolavano tra le dita stille biancastre e brune. Anche il capitano sorrideva con bonomia.
L'onorevole raccapezzò quel po' di gelato che gli rima­neva e con una cucchiaiata sola se Io ficcò in bocca. Ma la mole del malloppo e il gelo lo fecero restare con le fauci spalancate, mezzo affogato, finché potè chiudere le labbra e poi sbuffare : " Don Rafaé," disse, " non pazziamo troppo quando io stavo con la giacca rossa da galeotto, incatenato a un camorrista per sette anni... lunghi quanto la miseria, voi ve ne siete restato a Potenza a fa o' miedico, il bell'uomo, il giocatore di zecchinetta, il violinista e il poeta...".
"E così sono rimasto," rispose calmo don Raffaele, "tale e quale: medico, bell'uomo, giocatore e il resto; non ci ho rimesso né guadagnato niente. Tu invece tanno... allora, quan­do ti mettesti a fare ammuina nel '48, per pura guapperia d'uomo.,, che uomo? di guagliuncello vanitosetto, che facevi? Chi eri? 'O zi' nisciuno; nu povero suonatore di trombone o di flauto che sia, povero in canna e mezz'analfabeta. E adesso chi sei? L'uomo grande, il pezzo grosso, che t'hanno fatto pure deputato per Torino, perché hanno bisogno d'uno che dice sempre di sì e nun capisce niente. Chi ci ha guadagnato? Io o tu
[6]?"
"Don Rafaé... don Rafaé! " il neo deputato farfugliava. Quella parola "analfabeta" l'aveva intesa dire altre volte, soprattutto in parlamento, a Torino, ma il suo significato gli rimaneva ancora arcano; e, benché non avesse mai voluto chiederne la spiegazione per il timore che aveva in corpo d'essere preso per ignorante, gli dava l'impressione d'essere un'ingiuria grande, forse sanguinosa. Finalmente sbottò: "Voi non potete parlare, che siete stato sempre un borbonico sporco."
Don Raffaele l'afferrò per il bavero della marsina: "Ripeti, farabutto! Ripeti, ca te scass'a faccia! Cafone e figlio di ca­fone... così si parla a un signore?"
L'altro si dibatteva debolmente e il piattino del gelato gli cadde di mano. Din! fece il piattino rotolando, mentre l'uomo si guardava desolato i calzoni buoni e le scarpe lucide bruttati da quella sporcizia liquida ch'era già stata cioccolata e cre­ma: "Don Rafaé... voi m'avete offeso!"
Il prefetto de Rolland aveva allungato il collo. "Que c'est que ? Cessa è ce diable de ludi?"
"Niente, niente," lo rassicurò don Ciccio, "fa parte del giuoco."
Ma intanto ci s'erano messi di mezzo il capitano bologne­se, gli altri amici e gli animi s'acquietavano.
Allora disse don Totonno Spera che parlava piano piano, tomo tomo: "Questo, signor generale, è il vertice supremo, il motore, l'essenza medesima dell'animo meridionale: l'invi­dia. La gente dice: neh, perché quello sì e io no? Fossi più fesso io? Impossibile; neanche pensarlo... siccome l'invidia si sposa con la vanità. E non pensano al lavoro, al sacrificio, ma­gari alla fortuna. Nossignore: chiunque si alzi li fa fessi e quindi deve essere abbassato. Ferdinando II, che era Re, quando per via del progresso l'hanno pensato come uomo, non semidio, uno dei loro, come tutti quanti, essendo re, faceva fessi tutti. Quindi fu necessario sbatterlo giù. E pure lui.Quello s'era napolitanizzato 'o veramente. E perciò invidiò il Filangeri che gli aveva salvato la Sicilia ed era uomo di sal­vargli anche mò tutto il Regno, e lo mise da parte umilian­dolo... Questo re nuovo, Vittorio Emanuele, forestiero è, non è di casa nostra, e perciò non se ne sentono offesi... ancora. Perché, se il forestiero fatica e guadagna, non porta colpa. La mamma e la natura l'hanno fatto per questo; è un fati­cante nato, magari in veste di re o di gran signore. Condan­nato al lavoro; che se poi gli vada bene o male sono affari suoi. Ma un napoletano fortunato è un oltraggio patente, in­sopportabile. Epperciò Napoli non ha mai avuto un re di razza napoletana."
Il prefetto lo guardò sbalordito, spalancando la bocca.
Fu a quel punto che entrò trafelato un ufficiale dei cara­binieri. Era in tenuta di marcia con gli stivali bianchi di polvere. Cercò attorno con gli occhi e già s'incamminava verso il colonnello dell'Arma, quando un gesto di quello lo mandò a salutare prima, come di dovere, Sua Eccellenza il Governa­tore. Questi se ne stava lungo disteso a suo grande agio, tenendosi sulle ginocchia un piattino e nel piattino un gelato, un pezzo duro di formidabile aspetto, quasi una torre di cioccolato, che lui tentava di scalfire pazientemente col cuc­chiaino. Affondato com'era nel collettone luccicante di ricami d'argento, pareva che si divertisse a seguir con attenzione la filastrocca di sciocche galanterie con cui il generale Chabet tentava d'incantare la maliziosa sindachessa. Sul suo viso glabro, anzi legnoso, passavano di tanto in tanto rapide con­trazioni d'ilare malizia.
L'ufficiale, quando gli fu di fronte, salutò battendo i talloni; il governatore alzò la testa e gli chiese qualcosa che, per il frastuono delle conversazioni e il fragore della banda, non s'intese. E neppure s'udì la risposta dell'ufficiale; ma si vide d'un tratto il governatore balzar su dalla poltrona rabbuiato, allungando il collo, col naso e il pizzo all'aria, nell'atto del cane che punta.
La torre di cioccolato gli schizzò e andò a spiaccicarsi in terra ai piedi della sindachessa che dette un gridolino, ma il governatore parve non farcì caso; chiamò a sé con un cenno il colonnello dei carabinieri, poi un ufficiale superiore, poi il suo ufficiale d'ordinanza e si isolò con quelli in un angolo della sala.
Il generale Chabet, che non era stato chiamato, rimase a sedere; ma il bel filo del discorso gli s'era spezzato e ora tutta la sua attenzione stava addosso al governatore. S'era girato a metà per coglierne se non le parole che non gli potevano giungere, almeno l'espressione del viso, una smorfia, un gesto, che gli permettesse d'intendere quel che c'era per aria e di che peso fosse. Intanto rispondeva distratto e con monosillabi alle domande premurose della sindachessa.
La musica aveva ripreso a suonare, una mazurca vivace e saltellante, e le coppie ricominciarono a volteggiare; ma i ballerini andavano su e giù, avanti e indietro, piroettando senza brio. Si sentiva che c'era qualcosa in giro, qualcosa di grave forse. Il governatore fece un gesto d'impazienza perché quella musica gli impediva di parlottar sottovoce intendendo e facendosi intendere, e il sindaco che lo stava a spiare coll’occhio teso, puntualmente, mise le due mani alla bocca e gridò al capomusica: "Basta!" E, siccome quello, o non avesse sentito o gli premesse di terminare almeno il ritornello, non accennava a smettere, corse al palco agitando le braccia: "No! No!"
All'istante si troncò il suono e fu come se col silenzio cadesse qualcosa nella sala, un disagio o una punta d'angoscia. L'ufficiale d'ordinanza corse a prendere la feluca e la sciabola del governatore che subito s'avviò all'uscita. Sull'uscio si volse, accennò a un leggero inchino col capo e disse: "Do­mando scusa, mais je dois... devo andare... Je suis faché... do­lente...".
In quel momento si senti dalla piazza un rumore di ruote e uno scalpitio di cavalli. Il governatore chiese qualcosa al­l'ufficiale che aveva al fianco; quello si strinse nelle spalle.
"Mais non! Mais non! C'est ridicule! Facheux!" gridò il generale e varcò la soglia.
Allora anche il generale Chabet, senza essere chiamato, prese feluca e sciabola, lasciò soletta la bella e gli scappò dietro. Appresso a lui si vuotò tutta la sala.
Andrea e Gerardo uscirono subito e Isabellina pure. C'era in piazza una diligenza, dì quelle che servono per il servizio di posta, ferma, e un carabiniere teneva i cavalli per le briglie. C'era anche un garzone del servizio dei Procacci, trafelato e ansante che si strascinava zoppicando attorno alla diligenza e gridava a tratti, anzi a scatti, come se gli avessero dato la carica: "Madonna, Gesù! Madonna, Gesù!" Però quando vide gli ufficiali che s'avvicinavano, stette zitto. Un capitano dei carabinieri l'afferrò per il petto: "Tu, birichino... come ha fatto questa carrozza ad arrivare fino a qui?"
"M'hanno pigliato la mano i cavalli, capita... quelli erano spaventati. L'agge visti arriva cuoncio cuoncio alla posta “Neh, che è successo? Che d'è? M'ha'itto 'o maste; saglie a cassetta... Comm'infatti... ma chelli so' fuìuti... e a me m'han­no jettato a cap'in terra e n'atu po'... o mamma mìa! sì nun me tenevano forte l'anime sante d'o Priatorio... E che? mò stavo parlanno a vuie? Ah, ah! Ahi! m'hanno scassato 'o ddenucchio... Ahi!”
"Stai zitto, idiota!" gli gridò il carabiniere. Isabella con i due amici s'erano avvicinati alla diligenza e udirono chiaramente il generale Chabet chiedere ad un brigadiere: "Che è successo?"
"Signor generale," rispose il milite. "Una compagnia di renitenti alla leva, che veniva da San Fele, scortata da una squadra di carabinieri è capitata in un agguato... I reazionari hanno massacrata la scorta e han liberato ì prigionieri... Eppoì hanno assalito la diligenza postale, proprio qui sotto le mura, a Monte Reale... Non sappiamo ancora quante persone ci fossero dentro, perché non è discesa nessuna... Probabil­mente il postiglione era già d'accordo coi briganti..."
Una piccola folla s'era serrata attorno alla carrozza e premeva; a un tratto un grido acutissimo fece trasalire tutti. Una donna balbettava indicando lo sportello della carrozza: "Lì lì, guardate li..."
La curiosità femminile l'aveva tratta a scrutare nell'in­terno della diligenza e con raccapriccio le era parso di vedere qualcosa informe, simile a un uomo. Infatti era il postiglione. Lo calarono giù e apparve tutto alla luce scialba del fanale a petrolio. Un faccione bianco, con gli occhi spalancati, un buco in fronte e un rivolo sottile che gli s'era incrostato sul naso. Dal collo gli pendeva un cartello. Lo volsero per il lato buono e lesserò compitando ad alta voce, sotto quel po' di lume. C'era scritto: spia.
E sotto: Ricalo per la festa del Ceneraio piemonteso fesso.
Isabellina sbiancò tutta e già vacillava. Subito Andrea stese il braccio a sostenerla, ma lei si vinse e si trasse indietro quasi con uno scatto.
In quella cominciò a piovere. Grosse gocce batterono sul terreno come schiocchi di frusta, radi dapprima e poi nutriti, e d'un tratto l'acqua venne giù tutta insieme, come un tessuto solo che si spiegasse battendo al vento.
Sentirono dietro di loro la voce di don Matteo che di­ceva: "Oh! Bene mio! Meno male, rinfresca."

È il caso di Gerardo che era un ufficiale dell’esercito borbonico e che, con la sconfitta di Francesco II e per rispetto della bandiera cui aveva giurato fedeltà, perde il suo lavoro, rimanendo senza un soldo. Gerardo rappresenta, forse, la maggioranza della popolazione del tempo, spaesato e senza un futuro sicuro. Rabbioso contro il nuovo Re perché gli ha tolto quelle poche certezze che aveva. Insomma, Gerardo rappresenta il popolo di allora, arrabbiato col nuovo Re perché lo ha impoverito, ma che non vuole aspettare un attimo di più per ribellarsi, creando una semplice rivolta anziché una rivoluzione vera e propria.
Se Gerardo è il popolo inteso come gente comune del tempo, Andrea rappresenta la parte colta e cospiratrice di quella popolazione.
Andrea era un barone, un nobile quindi, con le sue proprietà e non aveva molto da lamentarsi. Ma era anch’egli un ex ufficiale borbonico ed era legato al suo vecchio Re, anche perché privilegiava la nobiltà e non infastidiva lo Stato Pontificio dove lui viveva, cosa che gli ‘unitaristi’ avevano fatto e avrebbero continuato a fare, conquistando anche Roma. Andrea è l’opposto di Gerardo, perché preferisce creare una strategia perfetta e non proporre una lotta disorganizzata. Se Gerardo rappresenta l’istinto, Andrea è la ragione. Anche l’amore per loro è inteso in maniera diversa. Gerardo ama le donne istintivamente, per attrazione fisica, infatti egli ama Juzzella, ma si concede facilmente scappatelle con le altre donne. Andrea ama Isabellina e le dedica tutte le sue attenzioni, quasi senza pensare alle altre donne.
Personaggio di spicco è Ugo Navarra che Alianello usa per rafforzare e per dare efficacia alle sue tesi, cioè che la Storia è scritta dai vincitori, senza tener conto dell’opinione dei vinti.
Ugo era primo tenente dell’esercito del re e si trovava, come Andrea e Gerardo, a combattere contro i Piemontesi per ottenere il ripristino del regno borbonico. Ugo ha l’animo del poeta, lo spirito del guerriero ed è anche un bel ragazzo. Un giorno si trovò a combattere nella casa di Maria, una donna albanese alla quale avevano appena ammazzato il marito. Per calmare la signora in preda alla disperazione, Ugo la baciò. Maria vide in Ugo la reincarnazione dell’anima del marito e provò amore per quest’uomo. In quella casa, Ugo fu ferito e fu tratto in salvo da Maria che lo portò in una capanna al centro di un bosco. Maria era un’albanese e rappresenta le minoranze del tempo. Ella vide l’arrivo di Ugo come un segno divino e per questo lo ama e lo serve. Ugo fu ucciso dall’esercito sabaudo i cui emissari diffusero poi una storia falsa, dicendo che Ugo aveva violentato e ucciso la donna.
Alianello usa questi due personaggi per mostrare come la storia possa essere manipolata e perfino modificata dai vincitori e preferisce fare quest’esempio non con persone comuni, ma con ex ufficiali borbonici che non rappresentavano certo l’ultima ruota del carro.
Personaggio emblematico del romanzo è sicuramente don Matteo Guarna. Egli rappresenta il marcio della società del tempo. Ha lottato con fervore per avere l’unione del regno ma, quando si accorge che i suoi interessi non sono stati tutelati, non esita a tradire i suoi vecchi ideali. Don Matteo rappresenta il ruolo simbolico di coloro che si prostituiscono al potere, di coloro che, per avere potere e prestigio, non esiterebbero a calpestare il proprio onore. Quando la priora propone il matrimonio tra Isabella e Andrea, egli appare all’inizio turbato da quell’idea, ma poi, vedendo in questo modo tutelate quelle proprietà, accetta senza protestare. Quando Andrea perde le proprietà, don Matteo vede quel ragazzo non adatto a sua figlia, perché lo ritiene un cattivo partito. Questo esempio lascia comprendere il personaggio che non considera i sentimenti, ma solo gli interessi materiali.
Il personaggio che gestisce dall’alto del terzo piano di palazzo Guarna tutti questi personaggi è la Priora. La madre priora era la figlia secondogenita del duca Guarna, quindi una nobile. Non è specificato se la sua fosse stata una vocazione spontanea o obbligata, ma ella è una monaca a tutti gli effetti e rispetta tutte le regole dell’ordine monastico del Carmelo. È una ‘gattoparda’, cioè un’aristocratica che si batte per i diritti della Chiesa, del popolo e per la liberazione del Sud. Disponendo di una personalità molto forte, la priora riesce a mantenere vivi i suoi ideali fino alla morte. Ella combatte il nuovo regno perché Vittorio Emanuele, nell’intento di creare uno stato laico ed indipendente dalla Chiesa, espropria tutti i possedimenti ecclesiastici. Alla priora questo non piace e lo dimostra nel giorno in cui arrivarono gli ufficiali italiani per eseguire l’esproprio. La priora era decisa nelle sue intenzioni e fece rispettare tutte le regole dell’ordine carmelitano: fece suonare le campane quando fu l’ora di suonarle, fece eseguire il rito di benedizione del ‘Santissimo Sacramento’, sebbene tutto ciò le fosse stato vietato.
La priora era molto ragionevole ed aveva un'apertura mentale molto ampia che dimostra attraverso i suoi dialoghi con Andrea e con Juzzella. Ella è in continuo contrasto con don Matteo a causa delle proprietà. Forse è questo il suo neo: l’inimicizia con don Matteo. Una suora non può nutrire astio per una persona. La priora, invece, battibecca continuamente con don Matteo perché non vuole cedere a quest’ultimo le proprietà della famiglia Guarna.
Per non cedere le proprietà all’avvocato, la priora rischia di morire con un peccato gravissimo sulla sua coscienza: una monaca del Carmelo non può possedere nulla. E così, in punto di morte, ella si pente di quello che aveva fatto e lascia un testamento.
La priora muore povera come vuole la regola del Carmelo, ma non lascia nulla a don Matteo, donando tutto al nuovo Re. Don Matteo è defraudato dal Re che tanto aveva ammirato e la priora si toglie una soddisfazione che, per la verità, non le fa tanto onore.
Alianello è uno scrittore anche abbastanza recente, quindi la sua lettura non richiede sforzo per comprenderne la cifra stilistica ed ideologica. Egli ha uno stile diretto, conciso e non sceglie assolutamente la via delle metafore per esporre un problema o un pensiero. Per questo suo stile calligrafico, Alianello è stato definito da alcuni critici uno scrittore ed un pensatore troppo tradizionalista e, forse, la sua carica ideologica ed il suo registro linguistico controcorrente, in quegli anni gli hanno impedito il successo letterario che egli meritava.
Alianello fa parte della schiera degli scrittori non omologati che polemizzano con gli stereotipi che la storia tradizionalmente ci fornisce. Questo romanzo può essere accostato a quello di Tomasi di Lampedusa che, nel 1958, scrisse il Gattopardo, creando così un nuovo ‘topos’ letterario: il Gattopardo. Il Gattopardo è un aristocratico che prende le distanze dalla liberazione del Sud da parte dei Piemontesi. Quindi, Alianello e Tomasi di Lampedusa hanno in comune la distanza dai Piemontesi e dall’idea che essi hanno avuto della Storia. Tanto per il distaccato Tomasi di Lampedusa quanto per l’appassionato Alianello, la storia è fatta dai vincitori, ma deve essere ampliata anche con il punto di vista dei vinti, per rendere chiari gli eventi.
Esistono molte opere che possono essere messe a confronto con l’opera di Alianello: egli stesso ha pubblicato opere con caratteristiche simili, come ‘L’alfiere’ ed un’opera saggistica, La conquista del Sud. Inoltre, questo romanzo e quello di Tomasi di Lampedusa hanno molti punti in comune: entrambi cercano di far chiarezza sul periodo post-unitario italiano, fornendo il punto di vista della parte vinta. I due romanzi esprimono le stesse tesi, come quella dell’importanza della controstoria come approfondimento sugli avvenimenti citati dai libri di storia ed entrambi si servono di personaggi comuni e di nobili per facilitare il lettore ad inserirsi nella società del tempo e per cercare di mostrargli le varie sfaccettature di quella società.
‘L’eredità della Priora’ è un romanzo che va controvento, poiché cerca di mostrare un volto diverso di una parte della storia che a noi è mostrato in maniera parziale e troppo oleografica.
Questo è un romanzo al quale non manca nulla: contiene valori forti come la fede e sentimenti forti come l’amore per la patria e l’amore per una donna. Alianello riesce a magnetizzare l’attenzione del lettore, inserendo, in un contesto storico–politico molto teso, sentimenti come l’amore e riflessioni sulla fede religiosa, che aggiungono quel po’ di sale, tanto da creare un romanzo avvincente e ricco di contenuti.
Questo romanzo non è stato molto recensito, forse perché non ha mai avuto un grande successo o forse perché Alianello era considerato un autore scomodo, per la sua visione controtendenza dell’Unità d’Italia: essa, infatti, non fu appoggiata da tutti mentre gli unitaristi volevano lasciar credere che l’unità d’Italia fosse avvenuta in un’aureola di eroismo. Su internet si trovano solo poche critiche sul libro e, forse, quella di Giovanni Caserta è la più completa. Caserta descrive il libro di Alianello come un romanzo figlio de ‘Il Gattopardo’, con la differenza che Alianello prova astio per i Piemontesi e, forse, proprio quest’astio porta l’autore ad esagerare in alcuni aspetti che, comunque, il critico considera veritieri. Caserta lascia intendere come Alianello non fosse visto di buon occhio dai ‘patriottici’ che lo considerarono scomodo per le sue idee. La critica di Caserta è comunque una critica positiva, come tutte le altre d’altronde, perché ‘L’eredità della Priora’ è un bel romanzo. Un romanzo che contiene storie intriganti ed interessanti e che riesce anche a dare un insegnamento o, quanto meno, ad indurre ad una profonda riflessione. Questo romanzo è un’opera che risponde a tutte le caratteristiche del best seller e può essere considerato tale.Affrontando il problema dell’unificazione nazionale italiana, il romanzo aiuta a comprendere meglio come sia avvenuta la spedizione dei Mille e come si è comportata la popolazione meridionale dopo la conquista dei Piemontesi.
Fabio Imparato
Note
[1] …Statuto: Lo Statuto Albertino: Carta costituzionale concessa dal re Carlo Alberto di Savoia-Carignano ai sudditi del Regno di Sardegna. Con l’Unificazione del Regno d’Italia, lo Statuto fu allargato a tutto il popolo italiano. Riguardo l’estensione dello Statuto, in tutta l’Italia, molti intellettuali posero il caso della “Piemontesizzazione” della Penisola.
[2] Ognuno si tenga i martiri suoi e vanti quelli: Don Rocco Sottolinea La differenza che c’è stata tra nord e sud, per le battaglie dell’Unificazione. Mentre nel Nord molti Stati decisero di annettersi al Regno, al Sud nessuno era disposto a cambiare. La resistenza della popolazione meridionale portò a maggiori battaglie e, quindi, a più morti.
[3]… Non saranno più qui o non saranno più: Andrea pensa all’imminente attacco dell’esercito di Crocco, per prendere il possesso di Potenza. Potenza, secondo Crocco e i suoi seguaci, doveva essere la capitale della reazione brigante. Il fallimento della presa di Potenza, fu un grave colpo per i briganti, tale da far ritirare le bande briganti da ogni città e di sciogliere l’esercito di Crocco definitivamente.
[4] …ma italici no: Don Rocco aggiunge come argomentazione, per la sua tesi, il fattore generazionale. Don Rocco precisa a ricordare che la popolazione meridionale è di stirpe italica, mentre quella settentrionale è stata un’meltin pot’ razziale.
[5] …uguali né di lingua né di cuore: La tesi esposta da Alianello è molto importante, perché presenta l’arma principale della Controstoria, cioè la rielaborazione di ogni possibile fatto storico, facendo passare i vincitori per vinti e viceversa. Alianello mostra infatti la differenza tra ‘Eroe nazionale’ e ‘brigante guastafeste’. Il primo si batte per l’ideale coincidente a quello dei vincitori, l’altro va in contrasto con esso e si trova quindi dalla parte dei vinti.
[6] …chi ci ha guadagnato?io o tu?: Don Raffaele, parlando della vita del Sindaco, ricorda di tutta quella povera gente che, per acquistare prestigio e ricchezza, hanno appoggiato i piemontesi, senza pensare ad eventuali conseguenze negative.

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